Prima di questa crisi di Governo era noto soprattutto agli addetti ai lavori chi è che davvero ci comanda. Ora dovrebbe esserlo a tutti e tutte, dopo aver visto sui teleschermi che mentre Di Maio “alzava la voce” per i suoi 20 punti le quotazioni di Borsa scendevano e lo spread frettolosamente saliva, mentre,all’inverso, quando l’ira funesta del novello pelide si è placata i titoli hanno ripreso quota e lo spread è sceso sino a raggiungere minimi difficilmente toccati in precedenza. Ma quale Europa! A comandare sono i Mercati, con le loro molteplici mani (non tutte) “occulte”.L’Europa si limita a “chiedere”, i Mercati “ si impongono”; con i “Signori di Bruxelles” si può parlare e, se non si pretende di svillaneggiarli, con loro si può persino negoziare ed evitare procedure di infrazione. Con I Signori dei Mercati no. Non hanno tavoli sui quali battere i pugni e nemmeno stanze in cui ricevano. Hanno solo una molteplicità di sedi dove possono fare quel che vogliono, dove decidono come far soldi per mezzo di soldi senza discuterne con alcuno.
Con i Signori dei Mercati non si fanno i conti; ma loro devono essere tenuti in gran conto, anche dalla Politica. Se non lo si fa nel modo e nella misura giusta si provocano reazioni che danneggiano proprio quelle fasce sociali che si vorrebbe aiutare. Infatti se i Mercati si risentono, lo spread aumenta ed aumentano così anche gli interessi sul debito pubblico. Gli interessi non si possono non pagare altrimenti non si collocherebbero più i titoli di Stato con conseguenze catastrofiche, fra le quali l’impossibilità di pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, ad esempio al personale degli ospedali e delle scuole. Quando lo spread sale, salgono pure i tassi (variabili) dei mutui fondiari, per cui aumenta la rata di chi vi ha fatto ricorso, per lo più gli appartenenti ai ceti medi, per comprar casa. Quando gli indici di Borsa scendono, si svalutano anche i titoli nei quali i piccoli investitori hanno posto i propri risparmi credendo di metterli al sicuro. Insomma se la Politica non è più che accorta va a finire che <invece di far bene fa un disastro>, come avverte un noto detto popolare.
Ma tornando ai Mercati: non c’è dunque scampo? Bisogna per forza sottomettersi ai loro voleri? Certo che no! Ma bisogna saperci fare:senza spavalderie, senza semplificazioni, con molta prudenza, molta ponderazione e soprattutto molta competenza. Perché la partita non è impossibile ma è tutt’altro che facile.
Al riguardo i pareri sono diversi e discordi. Nessuno, credo, ha la ricetta giusta, sicché. bisogna discuterne. Provo a dire la mia.
Secondo me il primo quesito da porsi è come ripristinare il primato della Politica sull’E-conomia, ponendo riparo al ribaltone degli ultimi tempi. Il che significa cercare di capire com’è che si è verificato il ribaltone.
Che la Globalizzazione avrebbe messo in crisi gli Stati-Nazione lo hanno preconizzato sin dai suoi albori economisti e filosofi. Ma solo perché produzioni e competizioni, giocate a scala globale, sfuggono alla possibilità di interferenza dei singoli Stati? E perché è divenuto possibile con un click spostare virtualmente volumi anche enormi di danaro senza che lo si possa controllare o impedire? Certo, anche per questo. Perché il capitalismo, non trovando più ostacoli davanti alla sua espansione dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, ha vinto? Si anche per questo. Ma pure per altro. Anche perché i suoi potenziali, possibili oppositori, cui è sembrato che fosse scomparsa ogni prospettiva di possibili alternative, hanno rinunciato non dico ad idearne una e a costruirla, ma persino ad immaginarla. Per mitigare se non risolvere la “questione sociale non hanno saputo far di meglio che confidare nelle virtù taumaturgiche della crescita e dello sviluppo, auspicando un ’illusoria “globalizzazione dei diritti”. Quando l’evidenza dei fatti ha deluso la loro fiducia, le sinistre – perché è di loro che sto parlando – hanno denunciato il fallimento del capitalismo, senza avvedersi che, pur con le sue cicliche crisi, aveva invece stramaledettamente vinto. Hanno semplicemente scambiato come fallimento del sistema capitalistico la grave crisi delle economie territoriali che coesistevano da sempre con le strutture del capitalismo e che proprio dal loro predominio erano devastate.
Questo equivoco viene da lontano: da sempre si è fatta una gran fatica a distinguere i soggetti di un economia minore dalle imprese capitalistiche, tanto che persino chi, come il sociologo Aldo Bonomi, si avvide della loro esistenza non seppe denominare il loro insieme se non “capitalismo molecolare”.Che avessero valori e logiche ben differenti lo avrebbe attestato con tutta evidenza nella crisi del 2008 il comportamento dei loro imprenditori la cui maggiore preoccupazione fu di salvaguardare posti di lavoro e salari. Si ricorderà che alcuni di essi per non poter pagare il salario ai propri collaboratori, si suicidarono.
Questa variegatissima area è composta da imprese sociali, piccole imprese familiari, cooperative di svariati tipi, imprese artigiane, ex lavoratori dipendenti che per non perdere il lavoro sono stati costretti a camuffarsi da lavoratori autonomi, nonché da quella che un altro sociologo, Angelo Detragiache, aveva chiamato imprenditoria popolare, costituita per lo più da ex operai messisi in proprio sia per scelta sia per effetto dall’esternalizzazione di alcune funzioni delle loro aziende.
Quest’area, non riconosciuta a sé stante nonostante le sue specificità, non è stata oggetto delle misure di politica economica necessarie perché potesse costituirsi in sistema, sicché è rimasta allo stato molecolare e quindi in condizioni di debolezza. Non trovando poi sul piano politico né rappresentanza né tutela nei partiti di sinistra, è finita in gran parte nelle braccia della Lega.
Per di più, le forze della sinistra hanno anche desistito da ogni tentativo di programmazione economica, lasciando mano totalmente libera alle imprese nel decidere cosa produrre e come produrlo. Dal momento che il modo di produrre determina anche la nascita, la trasformazione e la scomparsa dei soggetti sociali, in tal modo hanno lasciato che l’Impresa potesse pure comporre, scomporre e ricomporre la società secondo le proprie esigenze. Il che ha influito fortemente sulla formazione dei blocchi sociali.
Ora questi assetti dell’economia e della società sono messi fortemente in discussione dalla rottura degli equilibri ambientali e dalla gravità degli effetti che ne derivano. Si va sempre più affermando la consapevolezza di dover correre ai ripari. Nel proporsi di farlo si va scoprendo che questione ambientale e questione sociale sono strettamente intrecciate derivando ambedue dallo scriteriato modo di produrre, teso a “creare” ricchezza. In realtà i “crea” un bel nulla ma consuma l’ambiente sino a distruggerlo e sfrutta il lavoro.
Sta diventando palese quindi che l’era della crescita e dello sviluppo illimitati volge al termine. Per non dichiararlo apertamente si parla e si scrive di “sviluppo sostenibile” (che è un ossimoro) e di “nuovo modello di sviluppo”. Evidentemente le parole fanno paura: si teme che parlare e scrivere di un “diverso modello economico” scatenerebbe le ire di alcuni (i più ricchi) e spaventerebbe molti altri (anche ceti medi e poveri).
Ma al di là delle edulcorazioni si tratta di por mano ad una trasformazione radicale del sistema economico dominante, di costruire una nuova economia che non rincorra le quantità ma la qualità, che sia alimentata da fonti energetiche rinnovabili, non sia basata sulla distruzione creatrice dell’imprenditore,di cui scriveva Schumpeter, ma sul rispetto e la cura delle risorse; che non si nutra dello spreco ma badi alla conservazione ed alla riproduzione delle risorse. A questo proposito si va parlando di “economia circolare”, come se fosse una novità. In effetti è un ritorno al passato, ad una pratica economica antica, diffusa soprattutto fra i poveri. Ricorderò, per fare un esempio che sino a prima della seconda guerra mondiale, per i quartieri popolari di Napoli, e non solo in quelli, si aggirava un personaggio con un sacco sulle spalle ed un cesto su di un braccio, che si annunciava urlando a gran voce <sapunaro, robba vecchia>.Senza passaggio di danaro ritirava indumenti smessi contro la consegna di sapone da bucato. La regola del suo commercio era il pagamento in contanti, <ccà (qua) ‘e pezze (gli stracci) e ccà ‘o sapone>. Se come sembra, il recupero,il restauro ed il riciclo di materiali ed oggetti sarà uno dei pilastri della “nuova economia”, il futuro avrà un cuore antico, come Carlo Levi titolava un suo libro.
I tempi sembrano dunque propizi perché la Sinistra torni a fare la Sinistra, provando ad incidere sulla struttura e non occupandosi solo di sovrastruttura, giocando in attacco e non solo in difensiva e di rimessa, recuperando il primato della Politica sull’Economia.
Non so – e credo che al momento nessuno lo sappia – se il secondo Governo Conte e la collaborazione tra PD e 5Stelle possano preludere, quand’anche molto da lontano, a qualcosa del genere. Se cioè possano precedere una fase politica in cui la sinistra, liberatasi di ogni suggestione delle dottrine neoliberiste affronti con decisione l’emergenza delle questioni ambientale e sociale. Se così fosse la stranissima crisi, che si è appena conclusa con il giuramento dei Ministri, potrebbe rivelarsi quasi provvidenziale non soltanto perché ha sottratto il Viminale a Salvini ed i 5Stelle alla pressione leghista, ma anche perché avrà dato una spinta alle sinistre per ritrovare la rotta.