Lavoro per la Rai da quasi trent’anni: ne sono trascorsi venti da quando presentai per la prima volta un progetto editoriale per provare ad affrontare e raccontare questo tema, vero dramma civile dell’Italia repubblicana. Tanto grave (e rivelatore di una crisi di sistema), da aver dato luogo nel corso degli anni a una “strage, continua e crescente”, come FNSI e Usigrai la definiscono, sottolineandone il perdurare.
Eppure, si dirà, le notizie vengono date; gli incidenti raccontati; i numeri sommati; le vite, una dopo l’altra, sottratte. È vero: nei notiziari – soprattutto in quelli delle sedi regionali – non mancano le cronache degli incidenti. Né, su scala nazionale, ci si dimentica mai di commemorare ogni anno la “strage delle stragi”, quella dei minatori della miniera di Marcinelle: l’esplosione che l’8 agosto 1956 uccise 136 lavoratori italiani e 95 belgi.
Ma si sa: l’eccezionalità è un carattere che rende, si perdoni la brutta parola, “notiziabile” qualsiasi fenomeno. Ora, però, cogliendo il carattere civile della richiesta presentata alla Rai, non si tratta di organizzare eccezionali “maratone” televisive in occasione di eventi eccezionali.
Perché è qui che sta l’aspetto cruciale del tema: qualsiasi morte sul lavoro sarebbe da considerarsi eccezionale; non dovrebbe costituire solo lo spunto per una “breve di cronaca”. Occorre, al contrario, cercare di ricuperare la dignità di ogni vita, la forma di ogni corpo, il suono di ogni voce sacrificata sull’altare del lavoro: proprio quell’idea che l’Articolo 1 della Costituzione pone a fondamento del nostro vivere insieme.
È dunque su questa contraddizione selvaggiamente crudele – come riscopriamo ogni volta che uno qualsiasi di noi cade mentre svolge l’attività dalla quale estrae il proprio reddito – che dovrebbe articolarsi l’impegno e civile che oggi si chiede all’azienda del servizio pubblico radiotelevisivo.
Non ci mancano né le energie né gli strumenti: le grandi banche-dati audiovisive; le emeroteche digitali; le collezioni fotografiche… persino i social network. E poi: le banche dati e gli archivi delle Organizzazioni Sindacali, dell’INAIL, dell’ISTAT, dei centri di ricerca: il passato è documentato capillarmente. Senza troppa sistematicità e senza uniformità, è vero, ma le informazioni non mancano. E non mancano nemmeno le tecnologie e i saperi capaci di estrarre un senso storico e civile da quegli agglomerati giganteschi di dati, numeri e nomi.
D’altro canto anche il presente – l’oggi – può essere a sua volta documentato – giorno per giorno – con occhio attento al valore della memoria, al senso del singolo sacrificio; con l’acribia necessaria a scindere le emozioni dai problemi; con l’attenzione a distinguere le vicende umane dai contesti, i rischi oggettivi dall’incuria, la fatalità dalla speculazione.
Così sarà possibile documentare onestamente i fatti, restituire fedelmente i contesti, raccogliere le memorie delle persone: è questa la conclusione alla quale vorrei che si giungesse tutti insieme per aggiungere un significato civile più forte e riconoscibile al lavoro dell’informazione nel servizio pubblico. Anche quando tutto ciò che resta, nelle mani di chi sta intorno a noi, sono solo sangue e lacrime, qualche foto e – nel migliore dei casi – un discorso recitato da un vicesindaco o da prete (o chi per loro), distratti dall’odore dell’incenso e dal garrire delle bandiere.