Il weekend caldo di Boris Johnson è iniziato alle prime luci dell’alba di sabato 31 agosto, quando centinaia di persone hanno iniziato a marciare dal West End di Londra fino a Downing Street passando per Trafalgar Square.
Il giorno della piazza non ha deluso le aspettative dei promotori, in migliaia hanno aderito alle manifestazioni che si sono svolte in varie città del Regno Unito, da Birmingham a Bristol, da Oxford aBelfast, da York a Glasgow: un fiume di persone che ha sfilato in corteo con cartelli anti-Brexit e bandiere dell’Europa.
#StopTheCoup, “Fermate il colpo di Stato”, lo slogan scandito a gran voce da chi ha deciso di protestare contro la decisione del primo ministro britannico di chiudere il Parlamento da metà settembre, per un mese, arrivando a ridosso del 31 ottobre, termine ultimo per chiudere l’accordo con l’Unione Europea.
La protesta si è estesa a macchia d’olio rivelando che una consistente fetta di sudditi di sua Maestà, la regina Elisabetta che non ha battuto ciglio nell’autorizzare la mossa del premier, non accetta di buon grado il colpo di mano di BoJo, come è soprannominato l’inquilino più importante di Downing Street.
A supportare le iniziative di dissenso una petizione online che nel giro di pochi giorni ha raccolto quasi due milioni di firme: l’appello ha superato ogni aspettativa del suo ideatore, Mark Johnston.
“Il Parlamento non deve essere sospeso o sciolto fino a quando il periodo relativo all’Articolo 50 non sia stato sufficientemente esteso o l’intenzione del Regno Unito di ritirarsi dall’Ue non sia stata annullata” recita il testo con primo firmatario l’europeista di Reigate, una cittadina della contea di Surrey con poco più di 20 mila anime. Ed è proprio da lì che Johnston, da 17 anni impegnato nelle politiche pro Europa lavorando per varie ong, ha iniziato la sua campagna contro la Brexit.
“La petizione non resterà confinata alla rete – racconta l’attivista – ma dovrà essere discussa alla Camera dei Comuni, come ogni iniziativa popolare che raccolga oltre 100mila firme. Sono sorpreso, lo ammetto. Non mi aspettavo un tale successo ma credo che nessuno si aspettasse che la regina avallasse la decisione del premier” conclude con un’espressione che rivela il disappunto che condivide con la maggioranza degli inglesi.
L’appello è stato sottoscritto e promosso anche da persone e gruppi liberal democratici come Layla Moran e Chuka Umunna, il Partito dei Verdi e il Partito per la Parità delle Donne.
“Tutti noi siamo fermamente convinti che il Parlamento non possaessere chiuso. Ci batteremo fino in fondo per questo” annuncia John McDonnell, shadow chancellor nel governo ombra dei laburisti, confermando l’intenzione di presentare un disegno di legge per bloccare una Brexit senza accordo pur consapevole dell’incombente sospensione e i tempi stretti per portare in aula una misura legislativa che contrasti il no-deal.
Il fuoco di fila contro Johnson non si è dunque limitato alleiniziative civili. E dopo le azioni parlamentari, sono arrivate le sfide giudiziarie con tre diversi ricorsi urgenti presentati a Londra, in Scozia e in Irlanda del Nord.
Dopo il primo pronunciamento la scorsa settimana a Edimburgo, dove un giudice ha respinto gli argomenti presentati nell’udienza contro la decisione di Johnson stabilendo che quest’ultimo avesseagito in osservanza della Costituzione, e il rinvio delprocedimento previsto venerdì scorso nella City, resta in piedi il ricorso di Belfast presentato dall’attivista Raymong McCord.
Secondo McCord un’uscita no-deal sarebbe in diretta violazione con l’accordo del Venerdì Santo sui confini fra le due Irlande.
Il promotore del ricorso, il cui figlio fu ucciso nel 1997 dai paramilitari lealisti, chiede un’immediata ingiunzione per bloccare la sospensione del Parlamento.
Ma, nonostante l’agguerrita resistenza alla manovra del primo ministro mirata a rendere inevitabile l’uscita dall’Unione europea, con accordo o senza accordo, la Gran Bretagna sembra marciare a tappe forzate verso la Brexit.
Difficile immaginare che la mobilitazione, per quanto imponente, cambi qualcosa. A marzo scorso una petizione per lo stop all’addio all’Ue era stata rigettata dal precedente governo guidato da Theresa May, nonostante avesse raccolto oltre sei milioni di firme. Così come erano state inutili 4,2 milioni di sottoscrizioni – precedente record assoluto – raggiunte a fine 2016 per chiedere un secondo referendum sull’uscita dall’Ue.
D’altronde anche il negoziatore Ue, Michel Barnier, ritiene remota la possibilità di evitare lo scenario di un ‘no deal‘ e ribadisce che il backstop è il massimo della flessibilità che Bruxelles possaconcedere a Londra riguardo al contestato punto sul confineirlandese che Johnson, anche negli ultimi giorni, ha più volte affermato di voler cancellare dall’accordo.
Ma l‘Unione non cede e “continuerà a proteggere gli interessi dei propri cittadini e la pace in Irlanda del Nord”, fino alla fine. Parola di Barnier.