Anthropocene è un termine tratto dalle lezioni del biologo Eugene F. Stoermer e formalmente utilizzato nelle sue ricerche dal premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen (insieme ai colleghi Mario Molina e Sherwood Roland), uno scienziato dell’atmosfera celebre per i suoi studi sull’assottigliamento dello strato di ozono. Le sue teorie hanno ispirato un gruppo di scienziati – consultati e seguiti nei loro approfondimenti dai registi del film – che hanno usato questo neologismo per indicare un’epoca, iniziata in questi ultimi 50 anni, che segnerebbe la fine dell’era geologica precedente, nella quale la civiltà umana è sorta e si è sviluppata, ovvero il periodo dell’Olocene, e costituirebbe una fase nuova, in cui l’impatto umano sta causando all’ambiente trasformazioni tanto profonde, veloci e durature da superare l’azione di qualsiasi altro tipo di evento naturale conosciuto in passato.
Ma Antropocene d’ora in poi sarà soprattutto un documentario memorabile, un viaggio visivo ed emotivo nella presa di coscienza della condizione umana e della nostra appartenenza a un sistema complesso e stupefacente, che la maggioranza di noi conosce pochissimo. Proprio come quando Freud consigliava, per guarire dalla sofferenza, di addentrarsi nella propria interiorità – anche attraverso ciò di cui la parte raziocinante non è pienamente consapevole – imparando ad esplorare le regioni buie dell’inconscio, così la regista documentarista canadese Jennifer Baichwal con il marito e direttore della fotografia e del suono Nicholas de Pencier e il fotografo Edward Burtynsky ci invitano a guardare sotto la superficie delle nostre vite frammentate e constatare con i nostri occhi da dove viene la tecnologia che diamo per scontata e cosa succede a quello che, una volta consumato, scompare dalla nostra vista ma non dalla faccia della Terra.
Lungi dall’essere un film drammatico, questa sfilata di immagini poderose è anzitutto una scoperta, suscita stupore più che angoscia, lascia senza parole con luoghi e suoni sconosciuti ma ai quali sentiamo in qualche modo di appartenere, visto il filo che ci lega ad essi tramite il ciclo produttivo degli oggetti che usiamo, del bello di cui circondiamo o del lavoro che facciamo. Questo viaggio nello sfruttamento delle risorse naturali ha un potere demiurgico efficacissimo, proprio in virtù del fatto di non essere mai didascalico: ci mostra dove nasce lo schermo del nostro inseparabile telefonino e quali enormi giganti meccanici siamo stati in grado di creare per strappare dalla terra minerali e alberi, senza riempirci di informazioni calate dall’alto; ci lascia incantati di fronte alle incrostazioni psichedeliche che crea il potassio e strabiliati di fronte all’enormità dei conglomerati urbani più grandi della terra, senza bombardarci di dati e di lezioni teoriche. Antropocene ci conduce per mano dentro alle conseguenze del nostro progresso, senza condannarlo e senza articolare prediche; ci mette davanti agli occhi le differenze degli stili di vita umani nei 20 Stati diversi che vengono filmati: guardiamo attoniti di che cosa siamo capaci, in termini costruttivi, tecnologici e di adattamento. C’è anche l’Italia, con Venezia, sempre più minacciata dall’acqua alta, e con le immense cave di marmo di Carrara, che rispetto a 20 anni fa hanno aumentato in modo esponenziale la quantità delle estrazioni, grazie all’arrivo di macchinari a sostituire gran parte del lavoro umano. E’ comprensibile che chi viene ripreso nel documentario si mostri orgoglioso di quello che fa e di dove vive, che si tratti di scavare con le mani in una delle discariche più grandi del mondo in Kenya o di manovrare congegni che spaccano le montagne. Ma intanto i coralli in mare sbiancano, gli elefanti cadono sotto i colpi dei bracconieri, centinaia di specie si estinguono, il livello del mare si innalza.
Il film si apre con un fuoco ipnotico, accompagnato da un magnetico crepitìo, per un tempo lungo abbastanza a far sorgere interrogativi su quanto le fiamme siano feconde ma distruttive, simbolo di potere ma anche di paure ancestrali. Questa ambivalenza guida tutto il film, insieme alla voce intima e riflessiva di Alicia Vikander nella versione originale (Alba Rohrwacher nella versione italiana), come se spreco e utilizzo fossero inevitabilmente le facce della stessa medaglia, come se potenza e pericolo non potessero esistere l’una indipendentemente dall’altro. Solo chi non fa nulla non sbaglia, dicono i saggi. E l’uomo fa, incessantemente; diventa sempre più abile e veloce a fare; prolifica, vive sempre più a lungo e occupa sempre più spazio; e a un certo punto non può che interrogarsi sul labile confine tra consumo delle risorse e profanazione della natura, cui anche noi inevitabilmente apparteniamo. Non possiamo chiudere gli occhi e fingere di non saperlo.
Nei titoli di coda si scopre che l’intera produzione è stata compensata, in termini di consumo di anidride carbonica, da un progetto che si chiama Less Emissions, come a dire che anche i fautori del documentario sono perfettamente consapevoli, ironia della sorte, del costo ambientale che persino le opere artistiche comportano, ma è indispensabile non tacerlo e affrontare le conseguenze, per ricomporre il sistema. Riconoscere questa situazione, che ha portato la natura di cui non possiamo fare a meno ai limiti della sostenibilità, a valle di ogni allarmismo, è certamente “the beginning of change”. E’ così che il film si conclude, con lo stesso fuoco con cui era cominciato. Ed è così che questa nostra specie si ritrova davanti a quei colossi di pietra, di terra, di acqua e di legno, li domina e distrugge, pur dal basso della sua piccola statura, ma guardando la loro sproporzione fisica è chiaro che anche il confine tra essere nani ed essere giganti non è mai tracciato una volta per tutte.
Regia di Jennifer Baichwal, Edward Burtynsky, Nicholas de Pencier, con Alicia Vikander. Genere Documentario – Canada, 2018. 87 minuti.Distribuzione: Fondazione Stensen e Valmyn.