Il 3 settembre ricorre il 37 esimo anniversario dell’assassinio avvenuto a Palermo del Prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa generale dell’Arma dei Carabinieri, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’unico agente della scorta della Polizia di Stato Domenico Russo. Era il 3 settembre 1982. Era stato nominato dal governo Spadolini con l’intento di ottenere contro Cosa nostra gli stessi risultati ottenuti nella lotta al terrorismo. Fu ucciso a Palermo pochi mesi dopo il suo insediamento. In via Isidoro Carini, (dove avvenne l’attentato) saranno deposte delle corone d’alloro alla memoria, alla presenza del Comandante Generale dell’Arma, il Generale Giovanni Nistri. Il figlio Nando dalla Chiesa sarà presente insieme agli altri familiari delle vittime.
Abbiamo incontrato il professor dalla Chiesa in occasione della presentazione del suo libro inchiesta, scritto insieme a Federica Cabras, “Rosso Mafia. La ‘Ndrangheta a Reggio Emilia (Bombiani Overlook editore): una ricerca approfondita e indispensabile che indaga “il lato oscuro della provincia più rossa d’Italia”, ovvero Reggio Emilia. A scriverlo è il professore ordinario di Sociologia della criminalità organizzata; docente alla facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano dove dirige anche L’Osservatorio sulla criminalità organizzata. È presidente onorario dell’Associazione Libera e presidente della Scuola di formazione “Antonino Caponetto” e direttore della cattedra Falcone – Borsellino di Città del Messico. Già autore di libri dedicati all’analisi e denuncia del fenomeno mafioso. Il professore universitario e sociologo è stato invitato a tenere una conferenza a “Le vie del giornalismo. Sorsi di libri” di Castagneto Carducci (in provincia di Livorno) dal titolo significativo “Libertà”. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza», è la frase tratta dal primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, scelta per sottolineare il manifesto-programma dell’iniziativa. L’immagine simbolica è quella di un bambino appena nato che vine tenuto nel palmo di una mano adulta.
L’occasione è stata anche quella di presentare il suo nuovo libro alla presenza, inaspettata, di Piero Pelù, giunto in paese per ascoltare come sia stata possibile l’infiltrazione delle mafie in un territorio come l’Emilia. Il dibattito, moderato dai giornalisti Gianpaolo Boetti ed Elisabetta Cosci, è stato introdotto da Sandra Scarpellini, sindaca di Castagneto Carducci, in una serata che ha reso tutto più impegnativo a causa delle avverse condizioni meteorologiche, dovendo trasferire il pubblico nella sala del Consiglio comunale. Nella quarta di copertina di “Rosso Mafia. La ‘Ndrangheta a Reggio Emilia” si legge: «Era la cosa più difficile da pensare, la mafia a Reggio Emilia. La mafia che nasce e prospera nell’abbandono, nel degrado, nella disoccupazione, e invece mette radici nella città simbolo della cura sociale, degli asili migliori al mondo, del vitalissimo modello di sviluppo emiliano. La mafia che al Nord trova spazio nella corruzione, nella finanza d’avventura e nell’individualismo, e invece attecchisce nella città del partito “dalle mani pulite”, dell’economia industriale e contadina, nella capitale della cooperazione. La mafia che trova spazio nelle società imbelli e irresponsabili, e invece sfonda nella città dei fratelli Cervi, delle lotte antifasciste, della solidarietà con ogni buona causa. Com’è stato possibile questo autentico rovesciamento del senso comune? Dove nasce questo paradosso della democrazia italiana? E come va rivista la nostra teoria del fenomeno mafioso? Il libro risponde a questi interrogativi ripercorrendo, tra affreschi storici e cronache esemplari, una vicenda semi secolare e cercando i passaggi chiave della grande anomalia». Per poter capire come non abbiano funzionato gli “anticorpi” lo spiega bene un prefetto citato nel libro: «Il 4 settembre del 2018 a Palermo la dottoressa Antonella De Miro, prefetto di Reggio Emilia dal settembre 2009 al settembre 2014 (gli anni sono importanti), tenendo una lezione nella sala Carlo Alberto dalla Chiesa della prefettura di Palermo agli studenti e ai ricercatori di sociologia della criminalità organizzata dell’Università di Milano, in visita con la loro “università itinerante”.In quell’occasione ha spiegato che “io la ‘ndrangheta a Reggio Emilia l’ho vista subito”, grazie ai segnali che provenivano dal territorio e dalle forze di polizia, e alla numerosità dei cosiddetti “reati spia”, tra cui spiccavano gli incendi o le estorsioni “autoreferenziali.. (…) “Le istituzioni non erano preparate. Gli anticorpi funzionano se conosci il nemico: devi conoscere il batterio”. Ha precisato inoltre di aver colto come la forza della ‘ndrangheta fosse “la sua capacità di aver colto come la clonazione, ossia la volontà di perpetuare il suo modello sociale a Reggio Emilia”».
Nando dalla Chiesa rispondendo ad una domanda di Giancarlo Boetti (giornalista in pensione ha lavorato a La Stampa di Torino) sulle cause della “colonizzazione culturale” del territorio emiliano, ha spiegato come la sua ricerca è stata condotta mediante l’analisi in parallelo con la società mercantile olandese del ‘600 dove venivano gestite grandi masse di denaro.
«Ho letto un libro sul secolo d’oro dell’Olanda e la tesi che ho sviluppato dopo aver esitato a lungo nell’esprimerla, pone un interrogativo fondamentale: come è possibile che paesi del Sud Italia vadano alla conquista dell’Australia, dell’America e del Nord Italia? Come fanno queste comunità agropastorali come lo sono quelle, ad esempio, calabresi, ad andare alla conquista delle città economicamente avanzate in tutta Europa? – si chiede il professor dalla Chiesa (è anche giornalista e scrive per il Fatto Quotidiano) – La tattica dell’ndrangheta deve entrare nella testa di chi agisce per copiare. Mi spiego meglio: i mafiosi non sono signori in doppio petto dell’alta finanza. Io faccio vedere ai miei studenti le video riprese dei carabinieri che filmano i mafiosi e si vedono uomini in tuta da ginnastica. È una falsa credenza che sono delle persone distinte con i figli all’università e quindi insospettabili. Bisogna rovesciare tutti gli stereotipi che abbiamo inventato e iniziare a studiare analiticamente come sono fatti; studiare gli atti giudiziari. I mafiosi si incontrano nei ristoranti, nei bar, vogliono controllare il territorio e sono tutti “soldati” che pensano da mafiosi 24 ore su 24. Dobbiamo iniziare a pensare come loro e a Reggio Emilia non hanno pensato come fanno loro e non hanno cercato di capire come sono fatti.
A Reggio Emilia c’è stata una Caporetto ! “Noi abbiamo gli anticorpi” hanno sempre risposto le istituzioni locali. Questa città rappresenta l’esempio classico dove la mafia è riuscita a dominare e conquistare in modo silenzioso. Federica Cabras (la coautrice del libro, ndr) ha seguito la vicenda del boss Antonio Dragone che era stato inviato al confino in soggiorno obbligato. L’infiltrazione delle mafie spesso inizia in questo modo – prosegue Nando dalla Chiesa – e lei è andata a dormire nello stesso posto dove soggiornava Dragone e alla parete c’erano le magliette di un giocatore del calcio emiliano con l’autografo. Mi chiedo come la popolazione non si accorga della presenza dei mafiosi. Il caso emblematico di Brescello (in provincia di Reggio Emilia, ndr) dove è inspiegabile come la cittadinanza non abbia percepito nulla della presenza dell’ndrangheta calabrese. Si è abusato della retorica degli “anticorpi” a difesa del pericolo d’infiltrazione mafiosa».
Nella prefazione di “Rosso Mafia. La ‘Ndrangheta a Reggio Emilia” gli autori spiegano come il libro ha un «luogo di nascita simbolico: l’Istituto Cervi di Gattatico, provincia di Reggio Emilia. Alla sua origine sta infatti un incontro pubblico nel 2016 sulla presenza mafiosa nel Nord Italia promosso dalla presidente dell’Istituto Albertina Soliani (…) e su suggerimento della senatrice la Legacoop decise di assumere, davanti alla minaccia mafiosa, un ruolo di impegno diretto e affidò al Cross l’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università degli Studi di Milano (diretto da Nando dalla Chiesa, ndr), una ricerca intitolata “La ‘ndrangheta a Reggio Emilia. Tra economia, società e cultura. (…) La camera del lavoro di Reggio contattò il Cross per condurre un supplemento di ricerca sul comune di Brescello, sciolto per mafia l’anno prima (la vicenda è legata al licenziamento dell’ex vigile e giornalista Donato Ungaro che per primo denunciò l’infiltrazione mafiosa, ndr). «Albertina Soliani ci spiegò – prosegue il sociologo – che se abbiamo sconfitto il nazismo dovremo sconfiggere anche l’ndrangheta. È sbagliato però credere che tutti quelli che stanno con l’ndrangheta sono complici. È una popolazione vicina per compaesanità e per relazioni parentali, un movimento sociale e non criminale. Un modo d’agire che conquista dall’interno e modifica il modo d’essere della politica».
Nando dalla Chiesa nel libro cita anche l’interrogatorio come persona informata dei fatti in Procura a Reggio Emilia, dell’allora sindaco della città emiliana, Graziano Delrio, e racconta anche durante la sua presentazione a Castagneto Carducci i passaggi salienti della sua testimonianza: «Durante la deposizione del 17 ottobre 2012, sentito dal procuratore Roberto Alfonso, dal sostituto Marco Mescolini e dal magistrato Roberto Pennini della Direzione distrettuale antimafia nell’ambito dell’inchiesta Aemilia, egli afferma infatti di non aver “mai avuto per osservazione diretta” una “testimonianza” della presenza della ‘ndrangheta sul territorio. E che non vi erano state “in nessun modo” delle notizie certe di specifiche presenze negli appalti». Questo l’incipit delle molte pagine in cui viene riportato il verbale della deposizione (la trascrizione dell’interrogatorio) ma Dalla Chiesa spiega al pubblico presente quanto si evince dalla lettura che «spiega bene come uno non può sapere chi è Nicolino Grande Aracri (esponente di spicco della cosca calabrese degli Aracri, originario di Cutro, paese della Calabria, ma operante nella provincia di Reggio, ndr), e far finta di non sapere anche da dove veniva». L’ex sindaco Delrio si era recato in visita a Cutro come lui stesso spiega rispondendo ai magistrati. «Se sono riportati questi stralci dell’interrogatorio è perché hanno almeno due pregi. Da un lato danno la parola nella forma più ufficiale (una testimonianza davanti ai magistrati in qualità di “persona informata dei fatti) alla personalità politica più prestigiosa della città, riferimento, in quanto presidente dell’Anci, di tutti i comuni d’Italia. Una personalità stimata e mai oggetto di indagini.
E la parola, come si vede, è imbarazzata (le risposte date da Delrio alle domande dei giudici, ndr), tradisce una impressionante debolezza davanti a quanto sta accadendo nella pancia della città e della provincia. Tanto che nell’occasione il dottor Roberto Pennisi della Direzione distrettuale antimafia, gli obietta – scrive Dalla Chiesa – che un “sindaco non può rendersi conto delle infiltrazioni mafiose solo perché il prefetto adotta i provvedimenti o perché viene il dottor Gratteri a parlare del pericolo” dall’altro lato, attraverso la spiegazione comprensiva di Delrio, vengono perfettamente descritti quei meccanismi di solidarietà interni alla comunità calabrese per spiegare il rapporto tra la ‘ndrangheta e il variegato mondo dei “compaesani”. Cinque anni più tardi, il 18 luglio del 2017, dopo l’apertura del processo Aemilia e il commissariamento di Brescello, il ministro modifica tuttavia i toni di quella prima testimonianza, adducendo una maggiore consapevolezza della sua amministrazione circa l’esistenza del pericolo ‘ndranghetista».
E dalla viva voce spiega a chi c’era ad ascoltarlo a “Le vie del giornalismo” che«non è così difficile combattere la mafia se poi due donne (il prefetto Antonella De Miro e la senatrice Albertina Soliani) ci sono riuscite con i poteri dello Stato. In Questura a Reggio Emilia succedeva ai quei tempi che venivano dati regali e benefici che con grande abilità venivano offerti ad alcuni degli operatori di polizia assunti per tutelare la legalità. La vicenda emiliana parla di una civilizzazione regressiva. I mafiosi scoprono l’importanza delle interviste ai giornali e alle televisioni locali. Ottengono anche una promozione al loro servizio. Boss mafiosi del quartiere Brancaccio di Palermo avevano progettato di contattare giornalisti nazionali. L’aggettivo che esprime questo tipo di relazione e richiesta di conoscenza è “avvicinabile”, non è un complice ma è qualcuno con cui si può andare a parlare. Loro ragionano sugli “avvicinabili”». Infine un segnale d’allarme sull’infiltrazione delle mafie anche in regioni come la Toscana e il Trentino Alto Adige: «L’ndrangheta è un fiume che arriva dappertutto. La Toscana c’è dentro e il problema è quello di cercare di arginare e spesso ci sono sindaci che negano l’esistenza della mafia nei loro comuni. La Direzione investigativa antimafia segnala che a Trento il fenomeno è in crescita e molto grave».