Il Sudan ha un nuovo governo, guidato da un economista con un profilo internazionale, che garantirà una transizione pacifica fino alle elezioni del 2022 ma l’ufficializzazione arriverà nelle prossime 48 ore. La novità più importante, che possiamo anticipare, la presenza di una donna cristiana copta ai vertici governativi. Una svolta importante in un Paese che ha visto la minoranza religiosa vittima di persecuzioni.
Il nuovo esecutivo e il premier Abdallah Hamdok avranno il compito non facile
di risollevare le sorti di un’economia in profonda crisi e porre fine ai conflitti interni, dopo mesi di contestazioni senza
precedenti che hanno costretto alle dimissioni il presidente Omar Hassan al Bashir.
Il premier ha nominato i membri del suo gabinetto scegliendo tra una rosa di nomi avanzati dalle ‘Forze per la Libertà e il cambiamento’, che raccolgono le varie anime del movimento di protesta che ha portato alla caduta di Bashir.
Tra i 49 profili di alto livello proposti sono state individuate le 14 figure che andranno a ricoprire l’incarico di ministri in altrettanti dicasteri. Anche la rappresentanza delle donne è apparsa equa.
Ministeri che saranno guidati da esponenti della società civile, tranne quelli dell’Interno e della Difesa i cui vertici saranno nominati dai membri militari del Consiglio sovrano.
La prima riunione di governo è prevista per il 1mo settembre.
Subito dopo la cerimonia di giuramento, avvenuta lo scorso 22 agosto, Hamdok aveva promesso di porre i temi della pace, dei diritti e del rilancio dell’economia in cima alla lista delle sue priorità nel rispetto di quella che il primo ministro ha definito la “più grande rivoluzione della storia del paese”.
Un programma che sara caratterizzato dallo slogan dei manifestanti “Liberta’, pace e giustizia”.
Durante i 39 mesi previsti nel periodo di transizione, tra i primi punti quello di porre fine ai conflitti in Darfur e Kordofan meridionale, costruire una pace sostenibile e fermare la sofferenza degli sfollati, nonché strutturare un’economia nazionale basata sulla produzione.
Hamdok è consapevole della necessità di riformare le istituzioni statali, combattere la corruzione, costruire uno Stato trasparente ed equo, sviluppare relazioni esterne distese e un’apertura sostanziale alle donne nelle
istituzioni.
Guardando ai criteri per la formazione del suo gabinetto, c’é da sperare che Hamdok si adoperi per scelte dettate dall’esigenza dell’efficienza.
Nato nel 1956 nella provincia centrale del Kordofan, Hamdok ha conseguito il dottorato di ricerca in studi economici presso l’Università di Manchester, nel Regno Unito, e negli anni ’90 ha lavorato come capo consulente tecnico presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) nello Zimbabwe ed è stato il principale economista politico della Banca africana di sviluppo in Costa
d’Avorio. Hamdok ha inoltre ricoperto l’incarico di vicesegretario esecutivo della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa (Uneca) dal novembre 2011.
La formazione del Consiglio sovrano è stata ufficializzata con un decreto costituzionale emesso da Abdel Fattah al Burhan, capo uscente del Tmc, oggi membro del Consiglio sovrano con altri 4 militari.
In linea con la Dichiarazione costituzionale approvata lo scorso 17 agosto, il governo è incaricato di dirigere la politica nazionale durante il periodo di transizione, ma dovrà condividere il comando delle forze armate con il Consiglio sovrano. Insieme a Burhan ne fanno parte il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo alias Hemedeti, il portavoce Kabbashi, Yasir al Atta e Ibrahim Jabir Karim, mentre i cinque civili sono Sidiq Tower, Mohamed Elfaki Suleiman, Hassan Sheikh Idris, Taha Othman Ishaq e Aisha Mousa mentre Rayaa Nicol Abdel Masih è l’unica componente indipendente dell’organismo.
Quest’ultima rappresenta la novità più forte del ‘nuovo’ Sudan: è la prima volta che una cristiana farà parte di un governo.
Una scelta chiara che solo nelle prossime settimane ci dirà se porterà a una reale distensione nei confronti della comunità cristiana nel Paese, finora vessata da continue persecuzioni.
Si tratta di capire dove porterà davvero questo Consiglio sovrano, praticamente un governo provvisorio, che dovrebbe aprire la strada a riforme. Più profondamente dovrebbe sancire il fatto che ci troviamo di fronte a un governo laico, quindi non più ad una dittatura islamista, che possa davvero favorire un processo democratico dopo 30 anni di regime.
Fonti religiose del Paese hanno evidenziato come la cerimonia della ratifica dell’accordo segnata dalla preghiera di uno sceicco, ma anche di un prete copto, fosse già stato un gesto di apertura e di tolleranza religiosa. Segnali “simbolici” che hanno un peso e vanno presi in considerazione. Dopo di che operare all’interno del governo e modificare le cose sarà una partita difficile, perché parliamo di un Paese che dal 1989 è stato guidato da un dittatore che ha praticamente destrutturato lo Stato e ha giocato delle partite terribili come quella del Darfur.
Non può essere sottovalutato l’elemento che ai vertici del Consiglio sovrano ci sia un personaggio come Mohamed Hamdan Dagalo, il numero due dei militari, colui che ha in mano le milizie, le famigerate Forze di Supporto Rapido.
Altro aspetto che non si può ignorare è che l’80% dei funzionari dell’amministrazione pubblica è stato nominato da al-Bashir, anime islamiste con le quali sarà complicato cambiare radicalmente la gestione dell’apparato statale.
Terza questione, che si pone sempre quando ci sono cambiamenti molto forti, è che un conto è fare le manifestazioni, un altro è tradurre in pratica le cose che chiedi in piazza. La speranza è che questo avvenga senza che ci siano ulteriori interventi militari.
Il punto cruciale resta dunque il controllo delle forze armate su cui i generali possono contare, non tanto dell’esercito sudanese, perché quest’ultimo in quanto tale non esiste, ma delle milizie che lo compongono, tra cui uomini degli ex servizi segreti. Insomma, la strada verso la democrazia appare più un terreno minato su cui hanno manifestato grande attenzione anche delle forze esterne che in un certo modo guidano il destino del Sudan.
Il generale Dagalo è una sorta di rappresentante degli interessi di Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto, per citare solo alcuni dei paesi con cui il vecchio regime intratteneva rapporti non sempre trasparenti.
L’uomo forte del Sudan, responsabile anche del brutale intervento per disperdere i manifestanti radunati davanti al quartier generale della Difesa a Khartoum lo scorso 3 giugno con decine e decine di vittime, utilizza le sue milizie in conflitti che coinvolgono questi paesi, dalla Libia fino allo Yemen.
Inevitabile, dunque, l’influenza di queste realtà che del Sudan sono partner di vecchia data.