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Pesante sconfitta del neoliberalismo in Argentina

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L’autore della giocata vincente che porta Cristina Kirchner a un passo dalla vicepresidenza argentina e dunque a un trionfo inimmaginabile solo qualche mese addietro è Alberto Fernandez, l’ex primo ministro del marito scomparso, che ha distribuito le carte e deciso l’avvio della partita. Dimostrando intelligenza politica e tempismo sufficienti a prefigurarlo come un capo di stato accorto, abilissimo nel combinare cautela strategica con audacia tattica. Alleanze larghe e risolutezza nel condurle, costruite su un programma necessariamente elastico ma fermo nell’ancoraggio a un capitalismo disposto a investire in cambio di forti garanzie e a un ruolo mediatore dello stato rispettoso delle regole della democrazia e dei principi della solidarietà sociale.

Obbligatoria per legge, quella di domenica scorsa avrebbe dovuto essere soltanto una consultazione interna ai partiti, pur se aperta a tutti i cittadini in età di voto. Ma i candidati erano stati già tutti sanciti in anticipo per effetto dell’estrema polarizzazione determinata dalla drammatica crisi economica, risultato innegabile dei quattro anni di governo di Maurizio Macri. Cosi che le urne hanno di fatto raccolto una pre-votazione nazionale, che il prossimo 27 ottobre verrà replicata nella sua forma costituzionale. Ma già lascia risultati tangibili che ben difficilmente il governo potrà invertire (in politica l’impossibile non esiste, ma il principio di realtà resta tuttavia una legge fondamentale del pensiero occidentale). 

Il primo è quello che probabilmente ha più inquietato il presidente Macri: i mercati ai quali egli rivolge intera la sua fede e la grande informazione che lo ha stoicamente (e interessatamente) sostenuto, i mercati finanziari in primis, guardano già da un’altra parte. Il dollaro ha immediatamente ripreso a scalare sulla moneta nazionale, il peso; salgono anche il rischio-paese e gli interessi sul gigantesco debito pubblico. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI), primo assoluto tra i creditori, con un credito di circa 60mila milioni di dollari concessi al presidente Macri (si dice per intercessione personale di Donald Trump, vecchio conoscente della famiglia Macri nel mondo degli appalti delle grandi costruzioni), ha preso contatto con i vincitori, che già si configurano come una sorta di governo-ombra.

Intanto i Fernandez -Alberto e Cristina, un tempo soci di governo, poi in rotta totale se non nemici, ora uniti nel ticket che vede lui candidato Presidente e lei Vice, lui a “rassicurare i mercati”, lei le folle emarginate- si muovono con aplomb istituzionale. Consapevoli che la quasi ormai inesorabile vittoria li caricherà di problemi tanto urgenti quanto drammatici e di non minori aspettative. Avranno bisogno dell’apporto di tutti, non cercheranno certo nemici. C’è pertanto da aspettarsi che al contrario di quanto fatto da Macri, se nel prossimo dicembre si installeranno alla Casa Rosada, non lanceranno nessuna caccia alle streghe (il governo Macri non è certo rimasto a salvo dagli scandali, a cominciare dallo stesso capo dello stato).

Se ratificata tra due mesi e mezzo, la vittoria dei Fernandez romperà anche l’egemonia della destra più o meno populista sul continente americano. Per il Brasile dell’oltranzista Jair Bolsonaro verrà meno un socio fondamentale. In Colombia, il presidente Ivan Duque troverà gli interlocutori che silenziosamente da qualche tempo ricerca per sottrarsi alle pressioni ormai asfissianti del suo predecessore ed ex padrino politico, Alvaro Uribe, deciso per interessi personali e di casta a riprecipitare il paese in guerra. Nel mezzo della guerra dei dazi scatenata da Stati Uniti e Cina, l’Argentina potrebbe infine risultare un interlocutore prezioso per un’Europa che volesse allargare al Sudamerica, a cominciare dal suo versante atlantico, intese programmatiche non solo commerciali bensì economiche e industriali.


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