Bisogna considerare il lungo lavoro di ricerca che Turi Zinna conduce ormai da un paio d’anni per leggere “Il muro, cronachetta drammatronica di una civile apartheid”, la performance presentata nella rassegna “Porte aperte” dell’Università di Catania, scritta e interpretata dallo stesso attore, prodotta da Retablo per la regia di Federico Magnano di San Lio. Si tratta infatti di un’altra tappa di un consolidato percorso di sperimentazione e di esplorazione underground che a Catania, certo più avvezza a spettacoli canonici (se non estivo-popolari), si è ritagliato una forza per certi versi unica.
Da una delle (evocative) balconate del Chiostro di Ponente del Monastero dei Benedettini di Catania, il mantra fisico-vocale di Zinna si innesta sulle note in loop di “Me ne frego” una celebre canzonetta della propaganda fascista. L’effetto straniante è immediatamente costituito dal contrasto tra la partitura vocale e quella sonora (di Giancarlo Trimarchi) che si tesse sulle immagini di repertorio – vecchi cinegiornali Luce, documentari, filmati d’epoca, spezzoni del cinema delle avanguardie storiche virtualità, frammenti interattivi – che le accompagnano e nelle quali il rapporto stesso con la fisicità dell’attore, con l’improvvisazione e con le stesse singole parole che la articolano, diventa movimento e suono: un “continuum” verbale e acustico – grido, strepito, voce, gemito animalesco ma anche lingua e dialetto insieme a sequenze digitali e verbali private di senso – in cui si coagula il racconto di una storia “infame” (nel senso manzoniano) fatta di botte, pugni e regime fascista: il protagonista è infatti il barbiere Gioacchino, un “loser”, scambiato per un sovversivo nel corso della visita del Duce a Catania e costretto a sorbirsi oltre alla razione di manganellate quelle di olio di ricino. Nel tentativo di tornare a casa per “liberarsi” l’intestino, trova sbarrati gli accessi ai quartieri poveri (Zampa in “Anni ruggenti” ce ne aveva offerto sequenze deliziosamente amare: il Duce non deve vedere la povertà, i poveri non possono vedere il Duce) trovandosi poi costretto a defecare davanti al Caffè “in” della città, accompagnato dallo sdegno e dallo schifo dei borghesi bempensanti, deciderà allora di continuare il suo pellegrinaggio fino al mare: e ci pare di ricordare in questa atipico modo di vagabondare fisico, sonoro e verbale, un certa atmosfera irriverentemente celiniana. Il rap de “Il muro” piega la sua componente di protesta sociale a narrazione: è così che Zinna alza, come dire, di una ottava l’esibizione da semplice cantastorie e trasforma il suo “cuntu” in un risultato in cui i confini tra oralità e gesto sono annullati in vista di un “amalgama sperimentale”. Insomma ci pare che la vicenda del barbiere, una “fabula” scomposta – il cui titolo originale, “Una storia per errore” rinvia proprio a Gioacchino, personaggio di secondo piano della celebre “Ballata per S. Berillo” di Salvatore Zinna – dovesse essere resa attraverso l’eccesso multimediale – poiché, a nostro parere, tutto è eccesso in un regime totalitario – e nel quale gli aspetti extra-linguistici (o para-linguistici) dell’azione teatrale diventano predominanti, forse più della stessa narrazione. Dunque una provocazione – il controllo sociale delle masse, l’ordine, l’esclusione delle classi subalterne – raccontata in modo provocatorio e disturbante, tale da determinare una crisi della forma drammatica consueta, ovvero, in altri termini, la fine dell’egemonia del Logos e dare vita a quella “polifonia informazionale” a quello “spessore di segni”, di cui diceva già cinquant’anni fa Barthes domandandosi cosa appunto fosse il teatro. In fondo non era proprio Brecht ad ammonirci che se vogliamo vedere solo le cose che possiamo capire, non dovremmo andare a teatro ma in bagno?