E’ scomparso anche Pierino Tosi, uno degli ultimi autentici artisti del nostro cinema. Malgrado siamo ormai abituati a ricordare a malapena il nome del regista quale autore di un film, Tosi va tenuto bene a mente: rappresenta la forma e la classe della Settima Arte, smarriti via via in una produzione cinematografica sempre più incurante della raffinatezza e della precisione figurativa. E’ l’art director infatti a tradurre sulla scena (ambienti, costumi arredamenti) il gusto del regista, o a prestargliene uno quando non lo possiede.
Piero Tosi ha insegnato la sua delicata materia alla Scuola Nazionale di Cinema, trasmettendo ai giovani l’esperienza di un teatro d’eccellenza e di film dai titoli leggendari, legati soprattutto a Luchino Visconti: Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Morte e Venezia, Ludwig, L’Innocente; ma anche capolavori di Pasolini, Risi, Bolognini, De Sica, Monicelli. E naturalmente Fellini, a cui però si concesse con capricciosa parsimonia, disorientato dalla sua possessività:
“Questa volta potrò avere da te magari soltanto una piccola scarpina?” Lo circuiva ad ogni nuovo film il grande seduttore, corteggiandolo dietro il velo della canzonatura. E Pierino ne imitava abilmente la ‘vocetta’, revocandone lo sfottò.
Più l’uno inseguiva, più l’altro scappava, ma non soltanto per civetteria:
“Non ce la facevo, non mi lasciava più vivere. Io non so difendermi, non sono come Danilo Donati che scivolava via fra le maglie e chi lo riprendeva più. Anch’io sono un gatto, forse più di Danilo, eppure mi lasciavo catturare, mi chiudeva in macchina, mi portava a Fregene, non faceva che parlare di lavoro, continuamente, durante il tragitto, e a casa. Se Giulietta provava a infilarsi nel discorso accennando a ciò che le era successo durante la giornata, veniva liquidata con un “ah, sì?” e si riprendeva. Mi accompagnava a letto, mi rimboccava le coperte, mi dava il bacio della buona notte. E la mattina alle cinque sentivo già lo scalpiccio dei suoi piedi sulla ghiaia. Tòc, tòc… Bussava alla porta: “Sei sveglio, tesorino?” E si riprendeva da capo. Non esisteva pausa. Tutto l’opposto di Visconti col quale sul set non si tirava letteralmente il fiato, la tensione era costante e insostenibile, ma terminata la lavorazione i problemi del film venivano completamente accantonati.”
A 92 anni Pierino Tosi appariva immutabile, preservato dentro una bolla di vetro. Forse perché, schivo e appartato, non si lasciava logorare dall’esibizionismo trafelato delle persone di spettacolo. Al contrario, sempre con un piede su quella linea d’ombra oltre la quale è facilissimo scomparire, dissolversi. Pretendeva per sé il sigillo araldico dei ‘veri’ grandi, che non amano comparire; gli artefici, guardiani dell’antro, gelosi delle alchimie, che quando vengono sospinti alla luce hanno bisogno di occhiali da sole. E non posso impedirmi di ricordare le sue lenti giorno e notte amabilmente fumé.
“Non ho mai amato il mio lavoro, parlo proprio del mestiere dello scenografo, in cui le variabili molto spesso non dipendono da te, sono assolutamente arbitrarie, incoerenti, incontrollabili. Mi sembra di aver sempre lavorato dentro strettoie di tempo, occasioni rovesciate, smarrite, un cumulo di decisioni tormentate. Il problema è anche mio personale, me ne rendo conto; sono condannato dalla mia indole a lavorare da solo, non posso avvalermi di aiuti, di assistenti, di nessuno, perché non so io stesso quello che faccio, mi porto tutto dentro, orientandomi a istinto, cercando la strada a tentoni. Non trovo pace neppure la notte, se un pensiero mi assilla continuo a svegliarmi, accendo la luce, disegno, prendo appunti, fermo l’idea sul blocco di carta che tengo sul comodino. Come una tortura, una fatica di Sisifo.”
La collaborazione con Fellini era iniziata per il Satyricon, quando il regista l’aveva chiamato per ‘inventare’ il trucco e le acconciature degli antichi romani: quelle facce incancellabili nell’emozione che hanno sovvertito il metodo stesso di concepire il film storico.
Ma la piena responsabilità del set si era presentata con Toby Dammit (episodio di Tre Passi nel Delirio):
“C’è la scena del baratro, dentro cui l’attore drogato, interpretato da Terence Stamp, finisce con la sua Ferrari. Il burrone era stato ricostruito in teatro. Quando l’auto precipita, in mezzo a quel clangore di bidoni che rotolano e oggetti metallici che cadono nel vuoto, da una tenda piazzata sulla scarpata – le tipiche invenzioni di Fellini – si affaccia un omaccio incuriosito, o svegliato di soprassalto, dal frastuono. Ma non si vede la sua faccia, perché indossa un sacchetto di carta con sopra disegnati gli occhi il naso e la bocca. Quello è l’unico sacchetto rimasto di non so quanti, che avevo impiegato una notte intera a pitturare.”
Brevi bagliori su un’esistenza quasi fiabesca dedicata a colorare fantasmi, e costruire quella realtà visionaria – se si passa l’ossimoro – senza la quale la ripresa cinematografica non può esistere.
Poi soltanto fughe, inseguimenti, collaborazioni sporadiche, mai più un film insieme:
“Io pensavo solo a salvarmi. Lui con me era avvolgente come un serpente e io fuggivo. Quando sono andato a trovare Fellini, durante le riprese di E La Nave Va, ho capito che avevo sbagliato a rifiutare il film. Pur recalcitrando, avevo finito per accettare soltanto l’incarico di disegnare le facce, il trucco dei personaggi, e invece Federico stava realizzando qualcosa che non aveva mai fatto. Come potevo immaginarlo!”
Tosi si era concesso soltanto per tratteggiare le facce dei personaggi e solo quelle:
“Il cinema è fatto di figure che si affacciano all’oblò: contano i primi piani. Non ho cominciato questo mestiere perché amavo il costume, fin dall’inizio ho amato il cinema attraverso le facce. Se molli su una faccia o una pettinatura sei perduto, è inutile che ci sia un costume perfetto sotto.”
L’ultima volta che ci siamo incontrati e abbracciati nei pressi del Pantheon, abbiamo parlato inevitabilmente del principesco volume che il Centro Sperimentale di Cinematografia (edizione Electa) gli aveva dedicato con il titolo “Esercizi sulla bellezza”. Il volume curato da Alfredo Baldi e Stefano Jachetti era per una buona metà illustrato dai “provini” realizzati da Tosi durante un ventennio, con l’aiuto degli stessi studenti. Un apparato unico e imperdibile per qualsiasi futuro costumista. Un tributo, che l’omaggiato aveva subito ridimensionato: “Sono solo un imbroglione, rinascendo farei tutt’altro.”
Consapevole da vero artista che la creatività è un’utopia, un effimero inganno, e che qualsiasi opera, compresi i capolavori, è frutto esclusivamente di artificio. Con sei candidature al Premio Oscar, Piero continuava ad essere timido e schivo come quando era studente, poverissimo, all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ed era stato Zeffirelli a strapparlo al suo isolamento per introdurlo nel giro teatrale:
“Visconti era sceso a Firenze per allestire il Troilo e Cressida, e fu Franco a infilarmi come quarto assistente di Maria De Matteis.”
Alla Scuola Nazionale di Cinema – Centro Sperimentale ha scoperto che insegnare era l’attività che più amava: “Stare tra i giovani è l’unica fortuna, è da loro che io imparo.”
Ad essi non si stancava di affidare il suo unico segreto: “Solo se si conoscono bene la realtà, la cultura, la moda, il costume di un periodo storico, si può usare la fantasia. Lo schermo è un lenzuolo. Cosa si adagia su un lenzuolo? Si adagiano sogni erotici, sogni di bellezza sovrumana. Un tempo si andava al cinema per questi sogni, alla ricerca di una bellezza ideale.”