Il film avrebbe dovuto intitolarsi Un Regista a Cinecittà, ma all’ultimo momento Federico Fellini cambiò idea, e preferì per titolo Intervista dal momento che egli stesso, presente in scena, conduceva il racconto in prima persona scegliendo come pretesto narrativo una troupe televisiva giapponese che veniva a intervistarlo nel suo regno. In ogni caso al centro della storia c’erano gli stabilimenti di via Tuscolana – i teatri di posa inaugurati nel 1937 da Benito Mussolini con lo slogan: La cinematografia è l’arma più forte.
Intervista ottenne un’emozionante vittoria al Festival di Cannes dove si aggiudicò il Premio Speciale della Giuria riscuotendo venti minuti di applausi, con il pubblico in piedi a rendere omaggio a Fellini, il quale seduto in platea mormorava incredulo: “Forse si sbagliano, hanno visto un altro film, è solo un fenomeno di suggestione collettiva”. Accanto a lui Pietro Notarianni, l’organizzatore generale, comunista d’antan e cugino di Pietro Ingrao (non a caso Federico nel film gli fa interpretare un gerarca fascista in orbace e stivaloni), infilava una cocca del fazzoletto sotto le lenti degli occhiali a fermare le lacrime. Il ‘vecchio Peter’! Un cinematografaro rotto a tutto, la personificazione stessa del cinismo romano! “Che fai piangi?” Gli domandava Federico ancora più meravigliato. E l’altro incurante: “Deve essermi entrato un moscerino nell’occhio…”
La lavorazione del film ebbe inizio in piena estate nel 1986, per sfruttare una opportunità di pre-finanziamenti; ma soprattutto perché Fellini amava sopra ogni cosa lavorare durante le ferie degli altri e non dover pensare alle proprie vacanze. Fu pertanto deciso insieme al produttore Ibrahim Moussa, più noto come marito di Nastassja Kinsky, di organizzare un’anticipazione delle riprese a ridosso di Ferragosto. Partendo proprio dalla sequenza notturna, che è quella di apertura: le poderose chele d’acciaio di due gigantesche piattaforme meccaniche, illuminate da potenti lampade Sirio, che si innalzano nel cielo buio, tra spesse volute di nebbia artificiale, al di sopra dei tetti dei teatri di posa, delle chiome dei pini, e delle costruzioni sparse nella vasta area cinematografica.
Erano giornate caldissime e lavorare di notte nella frescura dei pini recava un insperato sollievo. Inoltre l’orario inconsueto portava con sé quella componente adrenalinica, quel tipico fremito di eroismo, che serpeggia tra le maestranze quando si affronta un’impresa non comune, si stravolgono gli orari, si piega il flusso della giornata a un’esigenza inderogabile. La troupe si trasforma in una sorta di eccitata soldataglia al comando di un capitano di ventura proiettato verso traguardi sconosciuti e imprevedibili.
Nella notte lungo i viali di Cinecittà si creavano meravigliosi bivacchi, arrivavano amici e conoscenti con la prospettiva di godersi il venticello e di assistere in ‘diretta’, da privilegiati, alla nuova creazione di Fellini. Un corteo di irriducibili innamorati della Roma d’agosto che non si decidevano a partire e trovavano in quella gita notturna fuori porta un motivo di accresciuta soddisfazione: il gusto di riscoprire la città vuota, le strade deserte, e la Capitale così ammaliante come soltanto d’estate, antica e adescatrice oltre ogni immaginazione.
A una cert’ora si entrava in pausa affondando i denti nelle mezzelune rosse dell’anguria, dissetandosi alla polpa succosa e zuccherina delle fette afferrate a due mani; tutti in silenzio o a ridere, per il piacere di ritrovarsi in quel rito allegro e infantile, di una vita resa appagante dalla sua ritrovata semplicità.
Quanto amava Federico quell’aria da scampagnata cameratesca che accompagnava i suoi film! Scrutare, a riflettori spenti, l’arabesco delle stelle in cielo, ascoltare nella magia della notte il coro inesausto dei grilli tra le chiome degli alberi, quell’eccitato concerto d’amore sotto il chiarore della luna.
Poi si tornava al lavoro, gli elettricisti riattivavano la corrente, il regista si rimetteva alla macchina da presa, e la squadra dei fedelissimi riprendeva la propria solerte, geometrica manovra.
Quando concepì la prima idea di raccontare Cinecittà, Fellini mi invitò a scrivere qualcosa, a mio piacimento, sugli stabilimenti. Un “soggettone” che buttai giù in pochi giorni e gli sottoposi con trepida attesa. Cominciava così:
«Circondata da un muro alto e compatto, occupata da padiglioni squadrati, ben dislocati tra filari di pini, aiuole e vialetti, silenziosa nel rombo ovattato del traffico lontano e il sospeso cinguettio degli uccelli, Cinecittà può apparire per chi sa guardare di trasverso oltre che dritto, anche una vasta ‘casa di cura’, un distretto ospedaliero, un nosocomio».
La narrazione continuava sfiorando a più riprese l’iniziale metafora, descrivendo padiglioni e persone, raccontando quel Paese dei Balocchi in tutti i suoi anfratti, miti e leggende. Ma anche inveterate abitudini, commerci di ogni tipo, e persino fantasmi. Un’isola a sé stante, un assortito campionario di umanità attorno all’instancabile peristalsi di un gran ventre che giorno dopo giorno sfornava favole di celluloide per le sale cinematografiche e per i nostri sogni a occhi aperti.
Un capitoletto era anche dedicato al ponentino, il vento di Roma che si alza fatato dopo il tramonto:
«Soffia il vento nei viali di Cinecittà, è lo scirocco romano, umido e denso di odori. E’ arrivato fin quaggiù attraversando il Centro, spazzando case e cortili, avvolgendosi nella notte tra i ruderi di granito, le piazze gli obelischi gli archi, investendo immense cattedrali profumate d’incenso, scompigliando alberi e tetti, dilagando nei quartieri dormitorio della periferia, fino alla campagna, agli ovili, alle vestigia fatiscenti di tombe, acquedotti, mausolei, torri milizie, scontrandosi infine con la barriera dei colli e riavvolgendosi in un rigurgito dentro le mura di cinta di questo strano reclusorio addormentato. Qui si precipita rapinoso nei viali, sollevando carte, barattoli, aghi di pino, facendo correre pigne secche, piegando con forza le fronde dei cespugli, le chiome alte degli alberi, le buie spalle dei cipressi, fischiando negli androni e muggendo nei lunghi corridoi dei teatri, strappando teli alle impalcature, sbatacchiando sacchi neri di plastica con schiocchi infuriati. E i cani, col naso in aria, fiutano tutto quello che il vento gli porta, tendendo il collo, stringendo gli occhi e facendo fremere le narici senza posa. Chissà cosa sentono».
Federico leggendo il soggetto seppe anche di Nadia, un’avvenente biondina con il volto di biscuit, che nelle pause del lavoro d’ufficio all’Istituto Luce, approfittava per raccogliere la cicoria nei prati attorno alla piscina. Il regista volle inserirla nella storia; e nel film successivo, La voce della Luna, l’ultima sua opera, diede alla Luna il volto antico della ragazza.
Alle mie incursioni c’erano da aggiungere i suoi racconti, i suoi ‘ricordi inventati’; naturalmente molto più belli dei miei appunti. Mettemmo insieme i materiali e il film iniziò rapidamente a prendere forma. La sceneggiatura, dopo la stesura di base, procedeva a salti, assecondando gli umori e le improvvise impennate del regista più che il piano di lavorazione. Che tuttavia venne rispettato alla lettera, nei tempi previsti da Gino Millozza, l’implacabile organizzatore generale che figura anche nel film, nel suo ruolo, divenuto leggendario per l’indomita intransigenza, come Patton generale d’acciaio.
Dopo l’anticipazione di Ferragosto, la lavorazione ebbe una pausa tattica e riprese in autunno per concludersi prima di Natale.
Del film entrarono a far parte i due divi de La Dolce Vita, Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, lui nei panni di un ingrigito e improbabile Mandrake ormai ‘prestato’ alla pubblicità; lei ‘rivisitata’ nella sua villa di Genzano come una dea Pomona dell’Agro Romano: a spalle nude e avvolta in un pareo che non riusciva ad arginarne le forme in espansione. Entrambi più interessati al gin e al whisky che ai fremiti amorosi.
Federico accarezzò entrambi con la macchina da presa, in una sequenza struggente: dentro di sé stava celebrando con irridente affettuosa tenerezza la fine di un’epoca che aveva contribuito a creare, anzi che egli stesso aveva inventato e resa celebre in tutto il mondo.
L’artista assisteva, esattamente come accade nel film, all’assedio massiccio dei nuovi padroni dell’immagine, all’accerchiamento sistematico delle strapotenti emittenti televisive private e delle compagnie pubblicitarie, produttrici di commercial, che stavano invadendo giorno dopo giorno tutti gli spazi di Cinecittà. E ancora non aveva visto – ma non ne aveva bisogno avendolo già prodigiosamente preconizzato in Ginger e Fred – l’occupazione brutale degli Studios da parte dei programmi TV. Oggi i 15 gloriosi teatri di posa, cresciuti a ventidue, sono stati trasformati in studi televisivi, ostaggio dei reality-show dalle audience stratosferiche, del Grande Fratello, delle roboanti serate del sabato catodico, delle lotterie nazionali e delle esternazioni di fantasisti nazional-popolari.
Federico non è vissuto abbastanza per sperimentarlo, eppure l’aveva preannunciato molto prima e con estro incomparabile. Nell’inaspettato finale del film, una troupe di cinematografari si raccoglie sotto una tenda rimediata in pochi minuti dagli attrezzisti con teli di plastica trasparente e cantinelle di legno. Fuori piove a dirotto. Spalla a spalla, in una tensione crescente, ma anche in una sconsiderata allegria da fine imminente, gli intrepidi superstiti della Decima Musa aspettano l’alba. Sanno che sarà quella l’ora dell’attacco e si preparano al peggio; i più vecchi e irriducibili imbracciando il fuciletto a tappi, spiano le creste delle colline da dove si scatenerà l’inferno.
Ed ecco che ai primi lucori un bolide di fuoco si abbatte sull’attendamento improvvisato e subito dopo si alza agghiacciante il grido di guerra degli indiani a cavallo, minacciosi, pronti allo sterminio. I pellirossa con in capo le acconciature piumate, si stagliano controluce nel livido albeggiare, brandendo a braccia alzate le lance rilucenti, che al momento dell’assalto si riveleranno per antenne televisive.
Non c’è scampo per i nostri eroi, e solo lo STOP! gridato nel megafono dalla voce di Fellini, risparmierà il peggio ai malcapitati.
Il film è finito, tutti a casa. La troupe si disperde sotto la pioggerella invernale, il campo viene smontato, le torri dei riflettori svettano scheletriche e vuote contro il cielo grigio, i camion dei mezzi tecnici si avviano all’uscita affondando nelle pozzanghere. L’aiuto regista, impugnando un ombrello sbrindellato, si allontana da solo arrancando nella fanghiglia, di spalle, come in una inquadratura di Charlot. Esiste altra verità oltre la poesia?
Nella filmografia di Fellini c’era stato il Circo, poi Roma e quindi Rimini, non poteva mancare il quarto luogo di elezione, Cinecittà, la sua seconda casa, per diretta ammissione.
Il tema era di quelli annunciati; in Fare un film aveva scritto:
«A Cinecitta’ io non ci abito, ma ci vivo. Le mie esperienze, i miei viaggi, le amicizie, i rapporti incominciano e finiscono nei teatri di posa di Cinecittà. Tutto ciò che esiste fuori dai cancelli di Cinecittà sono gli affluenti, insostituibili certo, un enorme meraviglioso deposito da visitare, da razziare, da trasportare dentro Cinecittà, avidamente, instancabilmente. Non so se tutto questo è un privilegio o un asservimento, ma è il mio modo di essere».
All’origine Intervista rientrava in un progetto televisivo assolutamente originale e promettente; era uno dei quattro TV movie, sul modello di Block Notes di un regista, nei quali Fellini avrebbe affrontato il suo rapporto con l’Opera Lirica, il Cinema Fulgor, l’America e appunto Cinecittà.,
L’Opera avrebbe abbracciato l’universo canoro del melodramma, il primo contatto di Fellini bambino con la magia del palcoscenico illuminato, l’orchestra nel golfo mistico, le maestose soprano doviziose di promesse. Il Cinema Fulgor era la sala cinematografica per eccellenza, il centro motore della sua vocazione, il recinto magico in cui rifugiarsi al riparo dal grigiore quotidiano, dalla vuota retorica fascista, dal chiasso militaresco delle parate. Pagando un biglietto entravi a luci spente, attraverso lo schermo, in un eccitante universo parallelo, il regno illimitato dell’immaginazione.
L’America rappresentava il «mondo nuovo», l’altrove, il divenire, la potenzialità, l’appuntamento solo rinviato. Il cinema dei grandi divi, dei celebri registi, degli scrittori leggendari, degli spazi immensi, delle praterie. E poi i grattacieli, le Ford specchianti, il Sunset Boulevard, i premi Oscar.
Infine veniva Cinecittà, il luogo magico in cui era possibile trasportare tutto ciò che esisteva fuori: anche il porto di Rimini, l’Arco di Augusto, Roma, Piazza del Popolo, la Basilica di San Pietro, il Colosseo, i collaboratori, le comparse, l’archivio fotografico, i viali con i suoi pini, i cani randagi. Tutto il mondo conosciuto nel Teatro 5, la bottega d’artista.
Cinecittà per Fellini voleva dire l’imprinting: il primo incontro con il cinema, il primo ricordo di un set, il crocevia di ogni destino, l’insostituibile eccitazione di un teatro vuoto, il dominio assoluto e impalpabile della luce. Cinecittà come il giorno della creazione, la fucina di Efesto dove nascono forme e figure, l’antro in cui i desideri diventano progetti e i sogni realtà.
La materia di Intervista può essere rintracciata in molti altri film dell’autore, ma mai in un racconto così compiutamente articolato, specifico, che l’autore modella apparendo di persona e non soltanto sovrapponendo la propria voce a commento. Per raccontare il “nuovo mondo”, non funzoiona assai meglio l’America di Franz Kafka!
Lui si schermiva:
«Ma se non ho fatto nient’altro nei miei film. Non ho sempre parlato per quarant’anni dei film in lavorazione, la troupe, gli attori, tutto questo lato indissociabile dalla mia vita?»
A Cinecittà, così lontana dal centro di Roma, si giungeva con un tram blu (soppresso da svariati decenni), che si prendeva davanti alla Casa del Passeggero, adiacente alla Stazione Termini. Un giorno vi era salito anche Fellini, con gli occhi incollati ai finestrini, mentre attraversava lo scenario di pascoli e rovine tanto amato dai paesaggisti romantici tedeschi. Prima che la strada prenda a salire verso i “castelli” che coronano la vallata, si incontrano tre giganteschi complessi edificati per costituire il cuore pulsante di una avveniristica Città del Cinema: Istituto Luce, Centro Sperimentale di Cinematografia e Cinecittà, l’area degli ‘Studios’, la fabbrica dei film.
«Facevo l’intervistatore per un giornale che si chiamava “Cinemagazzino”, e il direttore che era anche un sarto, Sandrino Reanda, aveva la redazione nello stesso posto dove aveva la sartoria, quindi sul bancone dove correggeva le bozze c’erano anche fili, aghi, rocchetti, grandi pezzi di stoffa. Lui stesso era sempre pieno di fili sulla giacca e parlava con delle spille in bocca. Mi incaricò di andare a Cinecittà, per fare un’intervista a chi, Luisa Ferida? Greta Gonda?, la stella del momento. Mi pare nel ’39-’40, credo fosse anche la prima volta che andavo a Cinecittà. Presi il tranvetto dei castelli, che era una vettura azzurra, allora fantascientifica, che filava, abbandonava Roma, affrontava la campagna, l’acquedotto romano, e poi finalmente questa specie di affascinante casermone con una grande scritta, “Cinecittà”. Certo, ero molto emozionato, sono entrato a fatica perché c’era un portiere che si chiamava Pappalardo, un omaccione con un grande giaccone, un cappottone giallo con una serie di bottoni, come i portieri dei grandi night club o dei grandi alberghi americani. Alla fine mi ha fatto entrare ed è stato lì la prima volta che ho visto il grande cinema in funzione. Stavano girando un film che si chiamava “La corona di ferro”».
Cinecittà, terra di confine, come quella intercapedine tra il sonno e la veglia in cui talvolta, contraendo i muscoli, abbiamo l’impressione di precipitare fisicamente nell’altra metà dell’emisfero della vita, il lato dell’esistenza che coincide con la notte e il sogno. Cinecittà dei miracoli: gioco, caricatura, divertimento, beffa, tenerezza, parodia. La routine quotidiana del cinema, i riti sempre uguali e ripetitivi, ma sempre invariabilmente eccitanti per ogni film in lavorazione.
Come emissari di un Oriente lontano e sempre favoleggiato, un’equipe di giapponesi venuti a intervistare Fellini accresce con la sua presenza quella fama di mistero che circonda il lavoro cinematografico, l’ebbrezza di spiare dietro le quinte.
L’ufficio di Fellini, sopra il Teatro 5, rigurgita di fotografie che il regista continua a scrutare ancora e ancora, raggruppandole, separandole, catalogandole e inserendole nei capienti contenitori allineati negli scaffali lungo le pareti, in ordine alfabetico a seconda delle caratteristiche: sesso, età, attributi somatici. Su ogni fotografia risalta un appunto a mano di Federico, una nota impaziente scritta a pennarello, che sintetizza l’esatta qualifica. Dalla posa del soggetto, dal sorriso, dalla morfologia, dai caratteri più apparenti, emerge un segno distintivo, un fenotipo e, alla fine, la materializzazione di un personaggio che il regista ha già concepito nella sua mente. Ma soltanto sullo schermo illuminato l’alchimia di volti riuscirà a raccontare una vera storia, che potrebbe persino fare a meno delle parole. Come nella pittura.
Numerose sono le richieste che arrivano a Fellini per riproporre in una mostra quell’immenso caleidoscopio di visi ed espressioni, appendere quelle foto una in fila all’altra sulle pareti di una galleria d’arte, per incoraggiare spregiudicate cacce al tesoro verso significati imponderabili. Ma il Maestro non concede i suoi volti a nessuno; li ha sempre negati per esibizioni e iniziative consimili, avanzando una giustificazione nobile quanto drastica: «Mi sono stati affidati».
Soltanto un raffinato editore, Daniel Keel della Diogenes Verlag di Zurigo, è stato autorizzato dal regista a stampare un particolareggiato e poderoso volume tratto dai segreti faldoni: Fellini’s Faces, Le facce di Fellini. Un titolo in cui legittimamente si annida anche un insidioso gioco di parole, un doppio senso che ci induce al sospetto: Fellini aveva tutte quelle facce?
Fine prima puntata