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Infiltrazioni mafiose nei comuni, il caso San Cipirello 

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Nei primi sei mesi di quest’anno in Sicilia sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa quattro consigli comunali. L’ultimo in successione temporale (20 giugno 2019) è quello di San Cipirello, in provincia di Palermo, dopo Pachino (SR), Mistretta (ME) e San Cataldo (CL). Comuni che nella loro storia risalente al Risorgimento (v. Mistretta) e ai fasci siciliani (v. San Cipirello e i comuni della Val Jato e del Belice-Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato ecc…) hanno espresso classi dirigenti che soprattutto nel secondo dopo guerra hanno eletto sindaci, consigli comunali, amministrazioni democratici e antimafiosi.

I sette consigli comunali sopracitati fanno parte di quei trecentoventotto italiani sciolti per mafia dal 1991 al 2015 tra i quali settantuno in Sicilia. Le motivazioni dei decreti di scioglimento comunali hanno evidenziato quel filo nero dei rapporti tra politica e mafia. Quest’ultima sconfitta della società civile e dello Stato dopo la stagione stragista degli anni Novanta governata dai corleonesi ha saputo mimetizzarsi e infiltrarsi nella gestione pubblica soprattutto locale. Con la corruzione essa si è spostata sul terreno della gestione della sfera pubblica tramite le competenze della c.d area grigia infiltrando propri uomini negli apparati e direttamente nei governi locali.

Spara di meno, corrompe di più. Si espande territorialmente, non molla le vecchie pratiche estorsive, gli antichi traffici (droga, armi rifiuti), penetra in tutti i settori della sfera pubblica.

Per esempio le motivazioni del decreto di scioglimento di S. Cipirello sono un modello di documentazione dell’infiltrazione mafiosa, non cruenta e di basso profilo, ma ugualmente dannosa per il suo parassitismo di vecchio stampo favorito dal cedimento oppositivo della maggioranza delle forze politiche, distanti dalle reali esigenze della società insensibile all’esodo migratorio dei giovani siciliani in gran parte laureati, incapaci di opporsi all’ipotesi dell’uomo forte finto sovranista e populista che salverebbe tutto.

Il decreto prende atto del contesto ambientale della Valle Jato e del Belice dominata da un mandamento mafioso storicamente tra i più cruenti della regione ed elenca le seguenti motivazioni:

1) esponenti legati a questo mandamento hanno procurato voti al sindaco eletto nell’elezioni amministrative del 2017, fatto denunciato pubblicamente durante la campagna elettorale e riferito da giornalisti locali coraggiosi e per questo minacciati. Nonostante ciò anche rappresentanti di sinistra (diconsi) hanno sostenuto il sindaco, storico esponente della destra, e, senza alcun pudore hanno presenziato ai suoi comizi elettorali assieme ai parenti e amici di noti mafiosi in galera;

2) le concessioni per la gestione dei rifiuti, dei servizi cimiteriali, della manutenzione dell’impianto pubblico di illuminazione, dei beni di proprietà comunale sono state rilasciate solo ad amici e parenti violando le leggi vigenti e creando dei monopoli ;

3) gli amministratori comunali sono venuti meno al dovere civico del controllo democratico e della trasparenza amministrativa, tenuto conto che in un piccolo paese dove tutti si conoscono non occorre avere certificati penali per sapere chi frequenti.

Questa motivazione riguarda anche il presidente del Consiglio Comunale e presidente della cooperativa Cantina Sociale Alto Belice la quale nella sua storia ultraquarantennale è stata per molto tempo un baluardo di democrazia e di presidio antimafioso. Costituita negli anni ‘70 dai viticoltori della zona, ha aiutato l’emancipazione sociale ed economica del mondo contadino, ha sempre impedito l’infiltrazione mafiosa nella sua rete sociale e ha evitato, i contatti pericolosi e speculativi. Però soci e conferimento di uva sono molto diminuiti negli ultimissimi anni mettendo a rischio il futuro della cooperativa e dei viticoltori. A questo punto si rende necessaria una riflessione autocritica delle forze democratiche di quel territorio e dei loro vertici.

È ovvio che tutti i corpi intermedi (associazioni antimafia compreso il Centro Studi Pio La Torre, sindacati, associazioni professionali e delle imprese) dovranno riflettere e intervenire per resuscitare le molteplici forze democratiche della zona, oggi dormienti o deluse e scoraggiate. È pensabile rilanciare un progetto di rinascita democratica, di partecipazione democratica e di ripristino dell’etica nella politica. Come si può giustificare il dare la tessera di un partito che si dice di sinistra a una persona con un passato di militante della destra mai ripudiata? Come è possibile che persone che si dicono di sinistra frequentino personaggi ambigui ed ambienti mafiosi, non ostacolati dai propri dirigenti? Populismi e sovranismi oggi presenti anche in Sicilia possono essere sconfitti solo con una revisione culturale e unitaria da parte delle varie sinistre oggi frantumate e ripartire dagli interessi sociali e economici del lavoro, dei produttori e delle imprese analizzando la globalizzazione capitalistica senza soggiacere al pensiero unico del “dio mercato” e riproporre ancora una volta Libertè, Egalitè, Fraternitè.


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