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Il lavoro del Garante: una luce nel buio dei luoghi di privazione della libertà

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Persone come simboli, come bandiere da bruciare o da innalzare in nome di battaglie politiche. È quanto accade da qualche tempo in quel mare Mediterraneo, un tempo chiamato mare nostrum e ora divenuto luogo di scontro tra Paesi, uniti da un’Europa che tuttavia non sa trovare risposte comuni al fenomeno dell’immigrazione. Un luogo di scontro sul tema dell’accoglienza e della distribuzione sul territorio dell’Unione di chi arrivava nel Vecchio continente alla ricerca di un futuro possibile; una sfida giocata al prezzo della libertà di donne, uomini e bambini, persone che pensavano di essere finalmente in salvo, e che si sono ritrovate bloccate in mezzo al mare, senza un porto disposto a farli sbarcare.

Abbiamo imparato a conoscere i nomi delle navi – commerciali, umanitari o militari – divenute da mezzi di salvataggio a luoghi in cui le persone sono rimaste intrappolate per giorni, private di fatto della libertà: “Alexander Maersk”, “Asso 28”, “Ubaldo Diciotti”, “Sea-Watch 3”, “Open Arms”. Così come abbiamo imparato a conoscere il meccanismo che porta allo stallo, un meccanismo fatto di rifiuti e rimpalli di responsabilità tra Stati, preoccupati del significato simbolico dell’accoglienza di una manciata di persone più che di garantire il diritto alla vita e alla sicurezza di ognuno.

Nella sua ultima Relazione al Parlamento, il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà lo aveva scritto: «La nave come luogo di privazione della libertà è uno degli scenari inediti che si è configurato nel nostro Paese nel 2018». E in quanto tale, il Garante nazionale – sulla base del suo mandato nazionale e internazionale in quanto Meccanismo nazionale di prevenzione delle Nazioni Unite ai sensi del Protocollo contro la tortura i trattamenti inumani e degradanti – ha il compito di assicurare la tutela dei diritti delle persone tratte in salvo, ma anche di tutelare l’Italia da possibili censure o condanne in ambito sovranazionale.

È ciò che cerchiamo di fare nei tanti e diversi contesti di privazione della libertà: istituti di pena per adulti o minori, centri di permanenza per il rimpatrio, hotspot, operazioni di rimpatrio forzato, trattamenti sanitari obbligatori, camere di sicurezza delle Forze di Polizia e dal 2018 anche navi.

Visitare i luoghi di privazione della libertà – senza autorizzazione e senza preavviso – è il primo compito attribuito dalla legge al Garante: sia laddove tale privazione sia esercitata in maniera ufficiale, sia quando si verifichi una situazione di fatto. Solo nel 2018 ne abbiamo visitati 90, compresa la nave “Umberto Diciotti” e abbiamo monitorato 34 voli di rimpatrio forzato. Per ogni visita viene redatto un Rapporto che viene reso pubblico sul sito del Garante.

Il fatto che ci sia un’Istituzione indipendente che ha il potere di visitare tutti i luoghi, anche quelli che rischiano di rimanere nel buio o nell’ombra, è fondamentale. Altrettanto importante è illuminare tali luoghi, rendendo trasparente gli esiti delle visite.

I Rapporti del Garante sono anche questo. Una luce nel buio dei luoghi di privazione della libertà, soprattutto quelli più oscurati, come sono i luoghi di privazione di fatto.


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