“L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono le leggi speciali – argomenta da Belgrado Tamara Skrozza del settimanale Vreme (Tempo) – anche perché se le donne giornaliste ottenessero delle tutele particolari questo non farebbe che peggiorare la situazione, confermando agli occhi dei colleghi l’immagine di un soggetto particolarmente vulnerabile, complicato e difficile”.
Complicata e difficile rimane invece la quotidianità di lavoro – nei Balcani ma non solo – fatta di minacce online, ingiurie, intimidazioni. Tanto che, secondo una recente inchiesta di BIRN, network di ong e giornalisti attivi su diritti umani e democrazia nei Balcani, le molestie online sarebbero per le giornaliste “pane quotidiano”.
“A causa della tendenza, profondamente radicata nella società bosniaca, a denigrare le donne emergenti in generale, molte delle mie colleghe preferirebbero ingoiare gli insulti piuttosto che denunciarli pubblicamente”, conferma da Sarajevo Elvira Jukić, caporedattrice del portale del centro ricerche Mediacentar. “Denunciare significa spesso rischiare il posto di lavoro, essere disprezzate dai colleghi o gettare un’onta sulla propria famiglia”.
Un allarme globale
Sottocategoria delle minacce ai giornalisti, la fattispecie delle molestie online declinate al femminile è una tipologia di attacco alla libertà di stampa e alla sicurezza dei reporter che il Rappresentante OSCE per la libertà dei media ha identificato già nel 2015, quando è stato lanciato il progetto SOFJO sulla tutela delle giornaliste da minacce online. Da allora, si legge in una raccomandazione dell’OSCE dello scorso febbraio, sono state raccolte innumerevoli testimonianze di molestie sessuali e campagne denigratorie subite da donne: “Le giornaliste donne affrontano un peso doppio: possono essere attaccate in quanto giornaliste e in quanto donne”. E l’escalation degli ultimi mesi è una minaccia per il giornalismo e di conseguenza per la democrazia.
Lo spazio senza regole del web, spazio di libertà di espressione ma anche territorio di abusi e censura ai danni delle voci “del dissenso e marginalizzate”, dovrebbe arricchirsi secondo l’OSCE di una cautela maggiore per i diritti umani e per la trasparenza sull’azione di algoritmi, troll e bot, mentre la politica è chiamata a impegnarsi a trovare “risposte innovative”, allargando la collaborazione alle vittime e ai gestori delle piattaforme.
Oltre all’OSCE, anche Nazioni Unite, Unesco e Parlamento Europeo hanno affrontato il tema di recente, vuoi come questione legata al rispetto dei diritti umani, vuoi come specifica tipologia di minaccia alla sicurezza dei giornalisti ma anche in quanto discriminazione di genere. “Mentre i giornalisti maschi vengono attaccati per le loro opinioni o per la competenza professionale, è più probabile che le donne vengano colpite da ingiurie sessiste e invettive a sfondo sessuale”, si legge ad esempio nella raccomandazione del Consiglio d’Europa per combattere e prevenire il sessismo adottata a fine marzo 2019.
Durante la conferenza dell’Unesco del 18 giugno scorso, quando oltre 200 delegati nazionali, giornalisti e avvocati si sono incontrati a Parigi, è stata anche annunciata l’intenzione di effettuare uno studio su “misure efficaci in grado di contrastare le molestie online che colpiscono le giornaliste”. Il fenomeno è in crescita e l’attenzione delle istituzioni non è da meno. Secondo un rapporto dell’ONU del 2018, quasi un quarto delle donne in generale ha subito qualche forma di violenza online, e ad essere più colpite, insieme alle appartenenti a minoranze etniche e a lesbiche e transgender, sono giornaliste e blogger: “Ai reati commessi in rete gli Stati dovrebbero applicare una prospettiva di genere – raccomanda l’ONU – e la pubblicazione periodica delle violazioni dovrebbe comprendere una casistica di genere”.
Una minaccia alla libertà di stampa
Che non si possa prescindere da una questione di genere sembra confermarlo l’analisi condotta dalla rivista Feminist Media Studies che ha passato al setaccio i circa 70 milioni di commenti lasciati dai lettori sul portale del Guardian nel decennio dal 2006 al 2016: a prescindere dal tema trattato, i pezzi firmati da donne hanno registrato una percentuale molto più alta di commenti poi bloccati. E un sondaggio del 2018 effettuato dalla Federazione internazionale dei giornalisti con sede a Bruxelles evidenzia che il 66% delle giornaliste vittime di violenza online lo sono state per il fatto di essere donne, mentre delle 600 interpellate dalla International Women’s Media Foundation quasi i due terzi hanno subito un attacco online intriso di minacce a sfondo sessuale. E gli attacchi avrebbero ottenuto l’effetto sperato, portandone quasi il 40% ad abbandonare il tema su cui stavano lavorando.
“Mi sono accorta che queste ondate di odio hanno cambiato il mio modo di fare giornalismo – ammette Elfie Tromp, una delle giornaliste intervistate dall’Associazione dei giornalisti olandesi lo scorso maggio – piuttosto che ritrovarmici travolta, ho preferito evitare certi argomenti per qualche tempo, dicendomi che non valeva la pena, per quel poco che guadagno col giornalismo”. La geografia delle molestie e dell’autocensura travalica i confini dei paesi tradizionalmente tutori e paladini della libertà di stampa, e anche nei Paesi Bassi c’è poco di cui rallegrarsi: su 350 intervistate, più della metà ha ammesso di essere stata minacciata e per il 70% di loro queste minacce hanno in qualche modo ostacolato il libero esercizio della professione di giornalista.
Per raccogliere segnalazioni ed elaborare strategie difensive, ci si muove anche nei Balcani: la rete di BIRN ha aperto a metà giugno una sezione dedicata. “Vogliamo conoscere la tua esperienza di vittima di violenza online, che si tratti di attacchi, molestie o minacce”, si legge sulla pagina che spiega come queste subdole tipologie di attacco ricorrano a “sessismo, discorsi degradanti e commenti su aspetto e rapporti personali, nel tentativo di screditare, umiliare e non da ultimo far tacere le donne giornaliste”.
Le donne si alleano contro la tempesta perfetta
“Nei Balcani denigrare le donne è qualcosa che si fa normalmente – scrive la freelance Lidija Pisker da Sarajevo – e attaccare online una donna è come dirle ciao. In molti casi, sono i media a incoraggiare tali atteggiamenti”. La conferma arriva da Duška Pejović, giornalista televisiva della rete pubblica del Montenegro (RTCG), che riporta la questione sul piano della mentalità e della cultura: “Negli anni Novanta conducevo un programma sui diritti delle donne e la decostruzione del patriarcato […] tanto che sono stata nel mirino di un fiume di insulti perché ero una donna che violava le regole della tradizione. Sono stata minacciata soprattutto di stupro”.
A distanza di anni, le minacce si sono forse modernizzate nel medium rimanendo tuttavia le stesse nei contenuti. “L’immagine stereotipata della donna resta ancora presente nei media in Montenegro”, continua Duška, e questo nonostante il principio di parità di genere sia esplicitato in numerose norme, internazionali e nazionali. Secondo Mehmed Halilović, giornalista di lungo corso ora nel direttivo del Centro per il giornalismo investigativo di Sarajevo, le giornaliste nei Balcani si trovano ad affrontare una “tempesta perfetta”, la combinazione di un’antica diffusa misoginia e di un moderno e rinnovato disprezzo per i giornalisti.
Azzeccata quindi l’analisi di Tamara Skrozza da Belgrado: non servono nuove leggi, bisogna piuttosto “riprogrammare nel complesso l’atteggiamento della società nei confronti della donna”. E per arrivarci, sono le donne, le giornaliste, a dover imparare a costituire massa critica, a solidarizzare, a denunciare. Come stanno facendo in Bosnia Erzegovina, dove a metà luglio è nata la Rete delle giornaliste, una sorta di “casa sicura” da cui trarre incoraggiamento, idee e competenze nella lotta per migliorare i propri diritti professionali.
Perché di questo si tratta. Di difendere l’accesso alla professione tutelandone la qualità, come ben spiega Maja Nikolić, giornalista di Radio Free Europe: “La creazione della rete sarà a vantaggio di tutta la comunità dei giornalisti, anche dei nostri colleghi maschi che spesso, troppo spesso se ne stanno in silenzio”.
Paola Rosä per Osservatorio Balcani Caucaso