10 anni dalla scomparsa di Fernanda Pivano. Una donna dall’intensa vita artistica e dalla inesauribile passione civile. Grande traduttrice e scrittrice, amica di Hemingway, Allen Ginsberg e De Andrè. E poi i grandi maestri, Cesare Pavese e il filosofo esistenzialista Abbagnano. Una vita tutta vissuta per amore del coraggio, a cui non seppe mai rinunciare… A parlare con Fernanda Pivano ci si riscaldava il cuore e ci si affinava la mente.
La intervistammo insieme alla collega Claudia Consolini nell’aprile del 2006 per Radio Città Futura (l’intervista fu pubblicata poi anche dalla rivista musicale “Mucchio Selvaggio”). Non stava già bene e prendeva vari farmaci che talvolta la stordivano un pò. Ma quando si parlava di musica, di poesia e di libertà era una… folgorazione! La riproponiamo integralmente.
Intervista di Stefano Corradino e Claudia Consolini
Fernanda, possiamo disturbarti per una breve intervista?
Volentieri, basta che non mi facciate domande di politica… Andrei in prigione nel giro di pochi minuti.
Niente politica, almeno non in senso stretto. Vogliamo parlare della tua vita, del tuo lavoro, delle tue passioni…
Allora è bene che vi mettiate a sedere perchè potrebbe volerci molto tempo!
Tra le passioni della tua vita ci sono la musica, dalla classica a quella rock e dei cantautori più impegnati, e la letteratura. In particolare quella americana. Due passioni intrinsecamente legate. Cominciamo con la prima.
Il mio amore per la musica… Beh, vediamo…mio padre era un signore che tutte le sere se ne andava su e giù per il lungo corridoio della casa in cui abitavamo. Passeggiava ascoltando continuamente i dischi da un grammofono.
Di certo non erano dischi rock…
Erano opere, quelle dell’Ottocento. E non mi divertivano granché, avevo già da piccola delle aspirazioni piuttosto turbolente!
Poi dall’ascolto sei passata all’esecuzione e hai iniziato a suonare il piano.
Mia madre e mia nonna mi avevano regalato un player, un pianoforte dal suono molto dolce. A sei anni ho cominciato a prendere lezioni. Studiavo molto. Ho avuto due insegnanti, entrambe russe. La seconda era allieva di Rachmaninov. Mi faceva lezione raccontandomi aneddoti divertenti di Rachmaninov o di altri musicisti russi. Poi dovette scappare durante le persecuzioni fasciste ed io rimasi con la coda tra le gambe. Pensa, diventò la maestra del figlio di Charlie Chaplin…
Mentre ti appresti a prendere il diploma di conservatorio studi al liceo. E poi l’università, dove conosci Cesare Pavese…
E’ stato il mio maestro. Poi lo hanno arrestato, due anni di confino, e non c’era niente da fare per tirarlo fuori. Ed in prigione andai a finirci anche io. Ma di questo preferirei non parlare…
L’altro grande, vero maestro che ho avuto è stato Nicola Abbagnano. Un filosofo esistenzialista, in un’epoca in cui l’esistenzialismo era bandito, ed invece io lo amavo. A differenza di quei filosofi tedeschi noiosi che parlavano solo di morte, Abbagnano parlava della vita….
Pavese e Abbagnano hanno quindi contribuito a fare di te la straordinaria traduttrice e saggista che sei oggi.
Io non sono niente, cosa vuoi che sia, se non una povera vecchietta… (sorride)
Vecchietta? Sei stata definita (giustamente) l’ambasciatrice della beat generation, colei che ha tradotto coraggiosamente le opere “scomode” dei grandi autori americani…
Beh, di coraggio penso di averne avuto, visti i tempi. Ma mi emozionavano davvero le cose che leggevo e traducevo. La libertà, la vitalità, l’indipendenza evocata in quei testi. La gente ormai lo ha dimenticato, ma a coltivare quegli ideali era la maggioranza dei giovani.
Sono i testi di quelli che tu definisci i “poeti di strada”, come Kerouak, o il tuo grande amico Allen Ginsberg, o Borroughs, che hanno portato la poesia e l’arte, come spesso hai affermato, “fuori dalle accademie e dai salotti buoni per restituirle alle masse, alla gente e farle amare ai giovani e alla gente di strada”… Puoi dirci come ti sei avvicinata a questi grandi rivoluzionari della letteratura americana postbellica?
Traducendo le loro opere. Nessuno voleva farlo, perchè occuparsi di loro avrebbe significato andare al confino; mentre io credevo che quella fosse la vera espressione contemporanea; era quella la direzione di marcia, un cammino letterario ed umano verso la libertà…
Cosa amavi maggiormente di questi poeti? La genialità, il talento, la sfrontatezza…
Il coraggio…
La stampa ufficiale li vedeva diversamente. Li descrivevano in gran parte come dei pazzi, drogati, depravati… Tu invece ce li hai presentati sotto una luce diversa.
Io volevo semplicemente che tutti conoscessero e si appassionassero come me ad una cerchia di poeti, che, in una società ingiusta, condannavano le dittature, e inneggiavano alla non violenza, alla libertà, alla solidarietà… Era bello sentir evocare quei valori. E poi erano delle persone dolcissime.
Dittatura e libertà, due termini che citi continuamente…
Miei cari, se pensate che io ho dovuto vivere, per ventidue anni, sotto il governo fascista, il più autoritario, il più inflessibile, nella nostra lunga storia, allora è molto bello pensare di potersi esprimere liberamente senza poi andare a finire in prigione… Perchè all’epoca, o uno parlava e la pensava come loro o finivi in prigione… E io ci sono andata più di una volta, lo sapete?
La storia del mondo è stata lastricata di dittature. Quindi la libertà è una conquista straordinaria e quando si ottiene è come l’aria, non se ne può fare a meno.
L’amore per la libertà è lo splendido messaggio di “Addio alle armi” di Hemingway. Probabilmente la tua traduzione più importante…
L’incontro con Hemingway è quello che più di tutti ha segnato la mia vita. Aveva un modo di scrivere così straordinariamente diverso da tutti i secoli precedenti, quella realtà così densa nella scrittura…
E’ proprio per la traduzione di “Addio alle armi” che fosti arrestata. Ti va di raccontarci come andò?
Preferisco di no. Mi sembrerebbe di voler fare la martire. La verità è che in quel momento eravamo tutti in prigione. Tutti quelli che lottavano per la libertà andavano in prigione. E quando non era una cella con le sbarre era sempre e comunque una prigione interiore.
Torniamo alla Beat Generation. Anche Allen Ginsberg, l’autore di intense liriche come “l’Urlo” o “Kaddish”, è stata una figura molto importante per te.
Eravamo come fratelli.
Era definito il poeta della strada e del dolore.
Per me era il cantore della vita, il poeta della libertà.
Un aspetto che ha accomunato i poeti beat, tra cui Ginsberg, era l’accostamento alla filosofia buddista. Una filosofia alla quale anche tu ti sei avvicinata?
Il mio primo viaggio in India è stato nel 1961. Sono restata lì quasi un anno e la condizione sociale e di miseria è stato ciò che mi ha colpito di più. Vedevo centinaia di persone mangiare sul ciglio della strada, fare i propri bisogni dove capitava. Questo ci sorprendeva. Ma vedere negli occhi di questa povera gente una luce di speranza ci riconfortava.
Avevamo iniziato parlando della musica. Della professoressa allieva di Rachmaninov. Sono i compositori classici che hanno stimolato la tua passione per le note?
E’ quella la vera musica. Le composizioni del Poliziano e del periodo del Rinascimento. Le opere di Monteverdi, di Vivaldi e di Bach.
Ma poi hai conosciuto un tale di nome Fabrizio, anarchico cantautore genovese…
Fabrizio è stato un grande poeta, forse esagero se dico il più grande che abbiamo avuto in Italia. Ma è stato il più eroico dei nostri cantanti. Il musicista delle rivendicazioni popolari trasformate in musica. E la sua musica poteva essere compresa da tutti, non solo dai professori..
Abbiamo ancora bisogno delle sue poesie “d’amore e di anarchia”?
Un bisogno incontenibile. Se un personaggio come De Andrè nascesse almeno una volta ogni sei secoli mi accontenterei…
Insieme avete scritto un disco struggente tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, opera letteraria definita la “commedia umana degli Stati Uniti”. Nel disco raccontavate le vicende umane di un giudice, un matto, un blasfemo, un malato di cuore…
Spoon River raccontava i sentimenti, i dolori, le ossessioni e le passioni intime dei singoli individui. Raccontava l’America. Quell’America che allora mi piaceva.
Non è più così? Cosa non ti piace dell’America di oggi?
La guerra.
In un mondo che non sembra brillare per saggezza e senso di responsabilità, vuoi rivolgere qualche consiglio ai giovani, alle nuove generazioni, per spingerli a continuare a credere e lottare per la libertà delle persone, la non violenza e il rispetto dei popoli, nel segno di un impegno civile e sociale che ti ha accompagnata in tutta la tua attività artistica?
Il denaro ispira la corruzione. La musica, la poesia, la letteratura possono cambiare il mondo. Ne sono ancora convinta, anche se non ho più i vostri anni.
Ne compirai novanta il prossimo anno. Ricominceresti da capo?
Ricominciare da capo magari sì, ma fare la stessa vita proprio no…
Oggi abbiamo ancora bisogno di persone come te, con la tua passione e la tua forza vitale.
Grazie, è il migliore augurio che potevo ricevere.
(Stefano Corradino e Claudia Consolini – Radio Città Futura, Articolo21, Il Mucchio Selvaggio – intervista 3 aprile 2006)