Non sorprende che a rapirlo e ucciderlo, quindici anni fa a Najaf, sia stato l’Esercito islamico dell’Iraq, un gruppo di fondamentalisti rozzi e privi di umanità, nonché del minimo senso dell’umorismo, in quanto Enzo Baldoni era l’esatto opposto di ogni forma di esagerazione talebana. Aveva cinquantacinque anni, era un fotoreporter, un appassionato di fumetti, un pacifista, un pioniere di internet e dei blog, un collaboratore della splendida rivista “Diario” di Enrico Deaglio e una di quelle persone che fanno bene al pianeta. Era uno di quelli che sapeva godersi la vita, che sapeva trovare del buono ovunque, che sapeva sognare anche all’inferno, che osservava il mondo con disilluso incanto, che credeva nel prossimo e ne aveva fiducia, che non aveva paura della morte e delle sue conseguenze.
Baldoni viaggiava, andava ovunque, raccontava ciò che vedeva con cristallina onestà e si batteva contro ogni forma di guerra, contro la violenza, contro i massacri, contro le ingiustizie, chiunque fosse a commetterle.
Era un uomo buono, gli si leggeva negli occhi, uno che non si rassegnava all’abisso, capace di una pietà e di una gentilezza fuori dal comune. E poi era uno che sapeva scherzare su tutto, con un tono dissacrante di cui purtroppo in questi anni di fondamentalismo arrembante si è persa la memoria.
Scriveva, ad esempio, Baldoni: “Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch’io in
Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L’indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato”.
Una vicenda, la sua, che ci ricorda l’importanza del giornalismo che consuma le suole, che va nei luoghi che rifiuta il sentito dire, le frasi fatte, le verità ufficiali, che si sporca le mani e ha sempre ben presente il bene comune.
Baldoni contro ogni forma di oppressione, contro ogni crudeltà, contro i soprusi che affliggono e rendono disumana la nostra società.
Baldoni la cui scrittura è sempre stata dissacrante ai limiti dello sberleffo, capace di guizzi come la descrizione, atroce ma oggettivamente esilarante, del suo funerale: “Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che assolutamente non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po’ più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati. Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato. Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete. Vorrei l’orchestra degli Unza, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, checcazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po’ anche a me. Voglio che si rida – avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte – . E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considerei un’offesa alla morte, bensì un’offerta alla vita. Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega. Basta che non facciate come nel Grande Lebowski”.
Un uomo follemente innamorato della vita e, proprio per questo, disposto a sacrificarla, se necessario, affinché l’opinione pubblica sia informata e l’ipocrisia venga smascherata ad ogni latitudine. Non si credeva chissà chi ma era un gigante. Non credeva di poter cambiare il mondo da solo, ma sapeva di poter dare un contributo significativo affinché fosse un posto più pulito.
Ci ha insegnato non solo a lottare contro la barbarie ma, soprattutto, a prenderla per il culo. In questo stava la sua grandezza.
P.S. Dedico questo articolo alla memoria di Carlo Delle Piane, scomparso di recente all’età di ottantatre anni. Che attore!
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