È morta bruciata nell’incendio dell’ospedale Giovanni XXIII, dove era ricoverata. È morta nel reparto di psichiatria, nel letto a cui era legata, impossibilitata a fuggire. Elena Casetto non aveva ancora 20 anni.
Una notizia, drammatica, passata quasi sotto silenzio, coperta dalla discussione sulla crisi di governo e dall’altro dramma che si consuma al largo delle coste di Lampedusa con centinaia di persone in attesa di un porto dove sbarcare e di un Paese che li accolga.
La Procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per fare luce sui fatti e il Garante nazionale delle persone private della libertà si è costituito come parte offesa, come fa in ogni caso di morte di persone ristrette, quando il decesso è connesso con la situazione di restrizione. Ed Elena era privata di fatto della libertà, bloccata al letto dell’ospedale con le ‘fascette’.
La contenzione è una realtà nei reparti di psichiatria, ma è una misura estrema da adottare solo in casi straordinari. Lo ha ribadito con forza la sentenza di condanna in appello del caso di Franco Mastrogiovanni, morto nell’agosto del 2009 nell’Ospedale di Vallo della Lucania dopo 87 ore di contenzione. Una misura estrema senza una funzione terapeutica e circoscritta – dice chiaramente la sentenza – alla finalità cautelare per sottrarre la persona a gravi danni: quindi, per tempi brevi e in via eccezionale.
Ed è proprio sulla base di tale eccezionalità che essa va applicata con un insieme di obblighi procedurali che vanno dall’effettiva considerazione come misura estrema, alla continuità dell’osservazione e della presenza del personale sanitario, alla sua rimozione nel più breve tempo possibile, alla necessità di supportare la sua avvenuta applicazione con elementi dialogici di spiegazione in modo da ricostruire nel paziente una possibile comprensione dell’esperienza vissuta, oltre che alla rigorosa registrazione di tutte le fasi della sua (breve) applicazione.
Sono questi criteri e la loro rigorosa applicazione che il Garante nazionale delle persone private della libertà esamina nel corso delle visite ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) e sono queste informazioni e la documentazione relativa che il Garante ha chiesto all’Ospedale e alla Azienda sociosanitaria territoriale.
Protocolli poco noti o parzialmente applicati, contenzioni fisiche prolungate, quasi come modalità trattamentali ordinarie per soggetti ritenuti “difficili”, registrazioni carenti sono alcune delle situazioni riscontrate nel corso delle visite del Garante. Così come ha osservato una correlazione tra l’insufficienza di personale e il ricorso a forme, più o meno prolungate, di contenzione meccanica o farmacologica, tanto da scrivere nel Rapporto sulla visita al servizio psichiatrico dell’ospedale di Colleferro nel Lazio: «Il Garante nazionale ritiene importante sottolineare che il ricorso alla contenzione quale forma suppletiva di difficoltà di applicazione del personale è inaccettabile e altresì rammentare che la contenzione non può essere mai proposta come atto medico trattamentale». In questa prospettiva acquistano particolare rilevanza le due Raccomandazioni formulate alle Aziende sanitarie competenti: «dotare ogni Spdc di adeguate risorse di personale a integrazione e completamento delle piante organiche» e «vigilare affinché in nessuna situazione le contenzioni di tipo meccanico o farmacologico, possano essere utilizzate come trattamenti terapeutici e impiegate al di fuori di un eccezionale stato di necessità, riassumibile entro i margini della limitatezza nelle occasioni, nei tempi e nei modi, né tantomeno che possano costituire un improprio surrogato per risolvere l’inadeguatezza numerica di personale».
Proprio la carenza di personale è uno dei fattori emersi con prepotenza nella vicenda di Bergamo. Sarà la magistratura a verificare i fatti e a individuare le responsabilità. Certo è che la morte di Elena Casetto riapre drammaticamente la riflessione sull’uso della contenzione in ambito terapeutico, sia essa fisica, farmacologica o ambientale. Una riflessione «lungi dall’essere giunta a una piena condivisione da parte degli interpreti», come scrive il Comitato nazionale di bioetica nel suo documento sulla contenzione del 23 aprile del 2015 e che nelle sue indicazioni, prevede l’adozione di una linea riduzionista volta al graduale superamento del ricorso a essa, la predisposizione di «programmi finalizzati al superamento della contenzione nell’ambito della promozione di una cultura generale della cura rispettosa dei diritti, agendo sui modelli organizzativi dei servizi e sulla formazione del personale» e l’introduzione di «standard di qualità che favoriscano i servizi e le strutture no restraint».