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Al Festival del Cinema di Locarno “Camille”, una tragedia dimenticata

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LOCARNO. Ti vengono in mente tante altre storie simili: quelle di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, di Marcello Palmisano, morti in Somalia; di Maria Grazia Cutuli in Afghanistan; Almerigo Grilz, in Mozambico; Marco Lucchetta, Alessandro Ota e Dario D^’Angelo, in Bosnia; Antonio Russo in Georgia; e quanti altri, ancora? Simone Camilli, Andrea Rocchelli, Fabio Polenghi, Enzo Baldoni… e chissà quanti ne dimentico, per non parlare dei giornalisti degli altri paesi: storie differenti, contesti diversi, in comune il loro voler documentare tragedie e drammi in corso, e uccisi per questo.

Chissà se verrà mai proiettato nelle sale cinematografiche italiane “Camille”, del regista Boris Lojkine. Il film racconta di Camille Lepage: una giovane reporter: anche lei animata dalla voglia di raccontare quello che vede; di vedere coi propri occhi realtà che si vorrebbero oscurare, nascondere; impedire che siano conosciute. Camille si spinge nella Repubblica Centrafricana, alla vigilia della guerra civile. E’ il pretesto di Lojkine per raccontare, attraverso gli occhi della giornalista (“Camille”, appunto) l’ignorata tragedia di un paese e dei suoi abitanti; un Centro Africa dilaniato da feroci conflitti, cosi’ simili e frequenti (e altrettanto ignorati) a quelli che si consumano in tanta parte del continente africano.

Camille Lepage viene  assassinata nel 2014. Nel maggio di quell’anno a Bangui, la capitale, la guerra civile si respira. Da mesi gli osservatori delle Nazioni Unite avvertono che il paeserischia di precipitare in un vero e proprio genocidio.Il Nord, musulmano, si solleva, le milizie Balaka muovono guerra a quelle del potere centrale, cristiane. La religione, naturalmente, è un pretesto. Ben piu’ corposi e terreni sono gli interessi in gioco, e non estranee potenze e super-potenze, occidentali e non. Camille finisce cosi col trovarsi dentro un qualcosa piu’ grande di lei, alla fine ne viene stritolata. Gli ultimi occidentali che la vedono, raccontano che Camille viaggia con un convoglio di milizie anti-Balaka a circa 120 chilometri da Berbérati, dove alcune centinaia di persone sono stati uccisi dai ribelli. Vuole mostrare quei luoghi, raccontare quelle storie.

Il 13 maggio 2014, il corpo della giovane donna viene trovato da militari francesi che pattugliano la regione di Bouar, a ovest del paese; è malamente nascosto in un veicolo guidato da ribelli anti-balaka. Cosa sia esattamente accaduto, come sia finita li’ non lo si è mai chiarito. L’unica cosa certa è che è stata assassinata, da un proiettile conficcato in testa.

Lojkinesa il fatto suo: ha alle spalle due documentari, entrambi sul Vietnam: “Ceux qui restentdel 2001; e “Les ames errantesdel 2006; ha poi realizzato, nel 2014, “Hope, film con il quale si “immerge” nell’Africa dei migranti.Racconta di aver studiato molto i reportages di Camille, e in particolare il materiale fotografico.Tuttavia è ancora dubbioso sul risultato del suo lavoro: “Nelle foto c’è una grande energia, una grande partecipazione agli avvenimenti che vive. Temo che il film non sia all’altezza, che le immagini filmate non riescano a dare completamente la realtà dei fatti accaduti…”.

Il regista si accosta a questa storia con delicatezza e partecipazione, quasi un senso di reverenza; certo rispetto per chi ha cercato di dare conto di conflitti e tragedie che si preferisce ignorare. Vicenda amara, riassunta dalle laconiche frasi della madre di Camille, cosi’ simili a quelle di altre madri, uguali alle amarezze che in altre occasioni ci è toccato ascoltare impotenti: “Nessuna inchiesta, nessun processo. Nulla. Gli assassini di Camille sconosciuti, impuniti. Niente.


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