La vita è un abito da sposa triste. La vita è una ragazza agghindata, seduta sul bordo del letto, con lo sguardo vuoto. La sua vita è solo l’attesa di un futuro che altri hanno deciso. L’immagine iniziale di “Carmen y Lola”, esordio delicato e tenero della regista Arantxa Echevarría (che è anche sceneggiatrice), e che ha già vinto i Premi Goya per il “Miglior esordio” e per la “Miglior attrice non protagonista” (Carolina Yuste) è decisiva poiché circoscrive i confini di una situazione femminile doppiamente subalterna – lesbica e rom – da cui non è pensabile sottrarsi.
Il film di Arantxa Echevarría racconta la storia vera – il riferimento è alla prima coppia di donne gitane sposate in Spagna nel 2009 – di un affrancamento non solo sessuale, ma dell’affermazione di una identità al di là di regole e convenzioni sociali. Per questo il suo obiettivo si sofferma essenzialmente sulle due protagoniste lasciando comunque intuire il contesto rom che le circonda, senza gli stereotipi che spesso l’hanno cinematograficamente accompagnato.
La vita delle adolescenti Carmen e Lola, appare improntata a regole che paiono immutabili: casa, lavoro, matrimonio. Una emarginazione che è anche fisica e geografica: un quartiere madrileno per ex sfrattati, l’UVA di Hortaleza, un mondo piccolo quasi pre-capitalistico, in cui tirare a campare. E’ qui che le due protagoniste intrecciano le loro vite, il cui prestigio sarà possibile solo in riferimento alla funzione di future mogli e madri: “Noi ragazze gitane – dice infatti Lola – non possiamo nemmeno avere sogni”.
Carmen (Rosy Rodríguez) ha solo due cose in testa: sposare Rafa e diventare parrucchiera. Non ha mai visto il mare e non sa nemmeno nuotare. Accetta la sua condizione come naturale e il futuro che le regole della comunità le impongono come scontato. Insomma è una che si fa le illusioni giuste: quelle consentite. Il rigido controllo della loro sessualità, esercitato da una serie di istituzioni sociali – l’importanza della verginità e la segregazione che ne consegue – diventa infatti il fattore decisivo della reputazione maschile e del controllo che su di loro accampa.
Lola (Zaira Morales) invece è una lesbica, una “mangiapatate”, studia – vorrebbe addirittura fare l’insegnante – è una writer creativa, sgobba nella bancarella di frutta a gestione familiare, all’interno di un contesto relazionale – i due genitori sono analfabeti – dominato dal padre, per il quale il lavoro è tutto. E quando Lola pare rivendicare le proprie aspirazioni è la madre a liquidarle con un perentorio “sempre a parlare di scuola, di libri, ma mai di ragazzi (rigorosamente gitani, n.d.r.) e di matrimonio”. Innamorarsi di Carmen – che all’inizio la rifiuta sconcertata – per lei è assolutamente naturale: in fondo Lola rivendica solo una vita normale, una vita “senza doversi nascondere”.
Poi c’è quel bacio, che scioglie poco a poco Carmen, la toccante (e simbolica) scena nella piscina vuota nella quale Lola insegna a Carmen a nuotare, gli incontri, i silenzi dell’una e le lunghe attese dell’altra, Rafa che sospetta altri uomini, la scandalosa rottura del fidanzamento, la scoperta della relazione, lo scandalo all’interno della comunità e la conseguente accusa di “condotta innaturale”: a Lola e Carmen non resta che la fuga dentro un bus che attraversa la notte fino all’alba e – in una sequenza che evoca quella finale de “I quattrocento colpi”- fino al tanto desiderato mare.