“Una zebra a pois”, cantava Mina negli anni sessanta. Se si cambia la parola zebra con “rete”, si ha la dimensione esatta di quello che accadrà nell’universo delle comunicazioni se passerà l’autonomia differenziata. Il quattordicesimo capitolo dei ventitré inerenti alla scelta di attribuire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle regioni riguarda l’”ordinamento della comunicazione”, appena dopo le “grandi reti di trasporto e di navigazione”: del resto temi collegati, come ci ha insegnato lo storico dei media Armand Mattelart. Se ne trova, tra l’altro, traccia concreta nelle bozze di intesa dello scorso 15 maggio: un po’ sfumata la Lombardia, chiarissimo il Veneto con la sua “Agenzia veneta digitale” e con la presa del potere conclamata sull’intero comparto.
Non se n’è parlato granché e, ovviamente, scuola e sanità hanno catalizzato l’interesse preoccupato di chi (per fortuna tantissime associazioni) si è mobilitato contro una vicenda oscurata dagli stessi contraenti dell’accordo di governo, speranzosi di chiudere il pasticcio a fari spenti. Tuttavia, la vigilanza severa di giuristi come Gianfranco Viesti e Massimo Villone e la protesta civile hanno smascherato il tutto. La sfrontatezza dei presidenti di Lombardia e Veneto – forse attratti dal ritorno del vecchio Lombardo-Veneto o persino dell’impero austro-ungarico- ha trascinato la Lega a farne il punto di una possibile rottura del governo.
Ecco, allora, che la luce si è finalmente accesa ed è chiarissimo il pericolo della “secessione dei ricchi” anche sul versante delle comunicazioni. Si rigirerà nella tomba il povero McLuhan, fiero sostenitore del villaggio globale oggi ridotto a mercatini rionali. Già nel 2000/2001, durante il dibattito parlamentare sulla sventurata riforma del titolo V della Costituzione, si evitò all’ultimo di inserire il delicato settore tra le competenze esclusive delle regioni. Pensate cosa sarebbe diventato il percorso di autorizzazioni, licenze, regolamenti nell’età del massimo fulgore della telefonia e dell’emittenza. E il digital divide sarebbe ulteriormente deflagrato. Ora,il rischio è persino maggiore. Siamo in una transizione molto complessa, in cui si incrociano necessità regolatorie tradizionali con le urgenze dell’era degli Over The Top. Quindi, non un mosaico costruito su fondamenta stabili e comuni, bensì un pasticcio vero.
E veniamo al punto particolarmente esposto all’assalto in corso. La “rete” unica ventilata, che vede un’eventuale intesa tra Tim-Telecom e Open Fiber (e forse ulteriori operatori), è un una fase di difficile composizione. Si frappongono – salvo chiarimenti- questioni antitrust e problemi reali, come i livelli occupazionali da salvaguardare dell’ex monopolista. Insomma, al di là degli annunci, c’è molto da capire ancora.
La “botta” del ko potrebbe venire, però, proprio dall’applicazione dell’autonomia differenziata. Non si avrebbe, in tal caso, una rete, bensì un insieme variegato di connessioni locali. Va da sé che le cosiddette aree “a fallimento di mercato” ( terminologia gergale alquanto cinica) crescerebbero e l’Italia, già penultima in Europa per la diffusione della banda larga e ultralarga, si spezzetterebbe condannando un bel pezzo della penisola all’agonia tecnologica. Il Nord ipoteticamente sviluppato si accingerebbe a divenire una costola dei pezzi forti dell’Europa o degli Stati uniti ( o della Cina?).
Il quadro è inquietate. Ci si fermi, finché si è in tempo. Nel frattempo la Lega annuncia proposte “sovraniste” in materia. Si salvi chi può. Nazionalismo e localismo sono una coppia destinata a scoppiare.