Anche nel recente Furland® (su cui abbiamo scritto qualche mese fa) Tullio Avoledo ha confermato di essere uno scrittore unico nel panorama letterario nazionale. Dai tempi del sorprendente L’elenco alfabetico di Atlantide(2003), romanzo dopo romanzo, egli continua a dipanare la matassa del mondo da un punto di vista particolare: la distopia e l’ucronia. Avoledo è uno dei pochi che sa cogliere le potenzialità letterarie della fantascienza, non temendo confronti coi grandi del genere, e nemmeno con gli scrittori della narrativa mainstream. Lo scrittore friulano pubblica da anni libri bellissimi, è un autore che va al di là di ogni catalogazione, uno di quei pochi che sa coniugare il fantastico con le inquietudini, gli affanni, i sentimenti dei nostri tempi, distinguendosi per l’alta qualità di storie e scrittura. Ritorniamo su di lui perché vorremmo venisse ristampato, a dieci anni esatti dalla sua prima pubblicazione, uno dei suoi più ammalianti romanzi, L’anno dei dodici inverni (Einaudi, 2009, pp. 377, euro 19), esaurito da tempo e fuori catalogo. Il romanzo, che era incentrato sulla vicenda di un intenso amore, vissuto all’incrocio con la grande storia, anche quella che ancora non è stata scritta, seguiva la falsariga del precedente, La ragazza di Vajont (2008), che raccontava del nostro paese e del mondo da un punto di vista più introspettivo rispetto ai primi romanzi, da cui, pur mantenendo la traccia ucronica, si allontanava per il tono, non più ironico e dolente, ma tragico.
Originale, questo è l’aggettivo a cui viene da pensare dopo aver (ri)letto L’anno dei dodici inverni. Eh sì, perché, nonostante il tema dei viaggi nel tempo sia abusato, Avoledo sa costruire una storia commovente, particolare, sulla scia della narrativa di Philip K. Dick, a cui rende grande omaggio attraverso il culto della Chiesa della Divina Bomba che adora San Filippo Dick nella Londra di un 2028 inquietante. La vicenda inizia (?) nel gennaio 1982 quando un uomo anziano si presenta a casa di Emilio ed Esther Grandi. Emanuele Libonati (già ne L’elenco telefonico di Atlantide) dice di voler studiare i casi dei bambini nati, come la loro piccola Chiara, il 25 dicembre. Vuole incontrarla una volta all’anno per seguirne la crescita. Li convince. Nel frattempo seguiamo anche la vicenda di un giovane dal destino oscuro mentre la grande Storia va avanti: nel 1982, la guerra delle Falkland, la morte dello scrittore americano Dick, l’assassinio del generale Dalla Chiesa e di sua moglie, nel 1983 Craxi diventa presidente del Consiglio, nel 1984 l’esplosione chimica di Bhopal, nel 1986 Chernobyl… Anno dopo anno i legami affettivi con quello strano uomo, che quando esce di casa sembra volatilizzarsi, si stringono. “Non è la prima volta che a Emilio vengono in mente i viaggi nel tempo, pensando al vecchio”, glielo suggeriscono tanti piccoli dettagli. Ma è tardi per approfondire. In quel 1991, l’anno dell’attacco a Bagdad, il padre di Chiara muore. E’ un trauma, e non solo per la bambina. Da quel momento le pagine scorrono sempre più veloci e, una dietro l’altra, ci portano a scoprire la sorprendente verità di un amore immenso, che non si arresta di fronte a nulla. Nemmeno davanti al Tempo. “Si chiamava Chiara Grandi. Era la mia donna. Cos’altro volete sapere?” Meglio fermarci qua per non togliere al futuro lettore non tanto il gusto del finale, quanto quello della straordinaria maestrìa con cui lo scrittore riesce a incastrare tutti i tasselli di questo puzzle emotivo-temporale. Struggente e malinconico, innervato da esperienze di vita, artistiche e culturali, dalla musica al cinema fino alla letteratura, il romanzo di Tullio Avoledo ci restituisce un pezzo della nostra vita passata, ma anche di quella che dovrà venire. “Il mondo è fuor di sesto: che maledetta noia/essere nato per rimetterlo a posto.” (Amleto, Atto I Scena V)