Liliana Segre, fu l’indifferenza a portare ad Auschwitz

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Pubblichiamo un intervento della senatrice a vita Liliana Segre apparso sulla rivista San Francesco.

All’inizio dell’incontro è stata proiettata la video testimonianza di Liliana Segre, nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Mattarella il 19 gennaio 2018. Nata il 10 settembre 1930, Segre è una delle ultimi testimoni dell’Olocausto.

Espulsa dalla scuola in seguito alle leggi razziali del 1938, con l’inasprimento delle persecuzioni venne nascosta dal padre presso alcuni amici; il 10 dicembre ’43 col padre e due cugini tentò di fuggire a Lugano ma vennero respinti dalle autorità elvetiche e il giorno dopo arrestati a Selvetta di Viggiù (Varese). Dopo una detenzione di quaranta giorni a Milano fu deportata dal Binario 21 della stazione Centrale al campo di Auschwitz Birkenau. Era il 30 gennaio ’44. Costretta al lavoro forzato presso la fabbrica di munizioni Union della Siemens, alla fine del gennaio ’45 affrontò quella che venne chiamata la marcia della morte verso la Germania. Fu liberata dall’Armata Rossa il 1° Maggio ’45 nel campo di Malchow, sottocampo del più famoso Ravensbruck. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni deportati ad Auschwitz, Liliana Segre è una dei venticinque sopravissuti.

Qui di seguito pubblichiamo la trascrizione della sua testimonianza.

 

Sono nata a Milano da una famiglia ebraica laica e milanese da due o tre generazioni, andavo a scuola in Via Ruffini, facevo la seconda elementare, ed ero una bambina qualunque – come siete stati tutti voi – una bambina qualsiasi felice e contenta cresciuta in una famiglia che l’amava moltissimo. Ho vissuto sulla mia pelle, sulla mia giovane psiche di allora l’esclusione, questo mio essere espulsa dalla scuola, non perché avessi fatto qualche cosa, ma perché ero nata in una famiglia ebraica. Sono stata mandata via mentre le mie compagne facevano la terza, la quarta, la quinta.

Ormai sono morte quasi tutte, ma mi è capitato gli anni scorsi di incontrarne qualcuna e di sentirmi chiedere: “ma tu perché sei andata via?”, e ho dovuto spiegare che no, io non ero andata via, mi avevano mandata via. E questo perché ancora, dopo quaranta/cinquant’anni, le cose non erano e non sono state dette. Sembra che siano fatti successi altrove, non qui. La mia famiglia era una famiglia italianissima: mio padre e mio zio erano stati ufficiali nella prima guerra mondiale, addirittura mio zio era un fervente fascista, si era sposato in camicia nera. Dopo si vergognò talmente di questa scelta da tagliare via la sua immagine dalla foto del matrimonio tanto che mia zia sembrava una donna che andava a sposarsi da sola.  In Italia c’erano molti ebrei fascisti, perché negli anni della sua ascesa, Mussolini ebbe un grandissimo successo, la classe borghese italiana, fra cui gli ebrei, era tutta fascista, mentre dopo la guerra tutti divennero antifascisti… ma prima correvano nelle piazze a battere le mani. Non si può dire che proprio fossero costretti, ci andavano volentieri.

Io mi ricordo di questa espulsione da scuola, mi ricordo che, da quel momento, è stato tutto diverso nella mia vita: la polizia entrava in casa, noi avevamo paura, si era esclusi da una infinità di situazioni, la stessa atmosfera all’interno della famiglia era cambiata.  Durante un incontro all’Università Cattolica ho chiesto a uno studente: “scusa, tu quanti pensi che siano gli ebrei in Italia?” e questo ragazzo che era già al terzo anno, mi ha risposto: “un milione e mezzo”. Gli ebrei, invece, sono sempre stati una minoranza. I cittadini italiani di religione ebraica erano e sono circa trentacinque, trentottomila*, ma di questi dati non se ne ha proprio nessuna idea. La cosa che fece più soffrire questo piccolo nucleo, questa minoranza fu l’indifferenza. Per il Memoriale della Shoah a Milano presso la Stazione Centrale, intorno a quel binario 21 da cui partirono i trasporti degli Ebrei verso Auschwitz, tra cui il mio, mi hanno chiesto un parere sulla parola da incidere nella pietra come simbolo di quel luogo. Io ho suggerito, e così è stato fatto, indifferenza. Non fu tanto la cattiveria, la crudeltà, l’antisemitismo o tutto il peggio che vogliamo dire che portarono ad Auschwitz. Fu l’indifferenza, quel voltare la faccia dall’altra parte, quel dire: “basta con questi ebrei, ma cosa ce ne importa, non succede a noi”. Di quel tempo, mi ricordo l’importanza degli amici. Quando parlo ai ragazzi dico: “non pensiamo alle trasmissioni televisive che se anche scrivono Amici con la A maiuscola quegli amici lì, quelli della De Filippi, non sono gli amici che dico io. Gli amici con la A maiuscola ti stanno vicini quando stai male, quando sei povero, quando sei in condizioni disperate, quando non sai a chi appoggiarti, sennò è inutile la A maiuscola.

Ebbene all’epoca gli amici con la A maiuscola furono pochissimi, perché quella radice di amore, amicizia, che è poi la stessa, era molto difficile da estrarre dai cuori e dalle menti. Era più facile far finta di niente, e così, nel silenzio e nell’indifferenza generale, poterono agire quelli che avevano il potere, quelli che, con alleanze vergognose, arrivarono a portare in un’Italia che in realtà non sarebbe stata antisemita, le leggi di Norimberga per cui si arrivò ad Auschwitz. “Nuovi Argomenti” rivista.

Liliana Segre, senatrice a vita


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