Quello dell’universo femminile nella narrativa di Vitaliano Brancati, l’autore de Il bell’Antonio, è un capitolo arduo e affascinante che val la pena affrontare per comprendere a fondo lo spirito, gli umori, le fobie proprie del grande narratore siciliano.
Percorrendo un itinerario che attinge anche alla biografia dell’autore – perché uomo e artista interagirono sempre – è possibile ricomporre le tessere sparse del grande mosaico, raffigurante sembianze femminili, al quale la sua opera ci riporta di continuo.
In effetti, se escludiamo brevi bozzetti, Brancati non ha reso quasi mai la donna protagonista esclusiva della sua narrativa; si cura poco dei suoi stati d’animo e dei suoi moti psicologici e ne fa descrizioni sfumate o addirittura insulse, mentre di personaggi maschili sono ridondanti le sue pagine. Uomini contorti, con sprazzi di genialità, assillati, irrequieti, accidiosi; uomini ai quali dedica le sue analisi più sottili e i suoi esercizi introspettivi più acuti con uno scrupolo che ha il sapore di un inconscio esame di coscienza. Ciò malgrado la sua opera trasuda femminilità: caviglie appena intraviste, bocche sezionate attraverso uno spioncino, bagliori rosati di carne occhieggianti dagli indumenti. Lo spirito muliebre, la conturbante fisicità della donna aleggiano prepotentemente anche nell’assenza, come il profumo di un fiore che a distanza di ore esala ancora in un ambiente per il solo fatto di esserci stato.
La donna che vive nelle sue pagine è una creatura che suscita sensazioni e impulsi ambivalenti: può, infatti, incarnare di volta in volta l’oggetto del desiderio o la spinta alla catarsi, il giocattolo con cui trastullarsi o l’immaginetta da santificare, in una riproposta moderna della dicotomica immagine medievale o in un confuso altalenare tra vecchie e nuove istanze. Sempre, però, neutra. Come se non brillasse di luce propria ma del riflesso di ciò che provoca negli uomini.
La galleria dei personaggi utili alla conferma di quanto detto potrebbe essere lunga, ma bastano pochi ritratti esemplari per ribadire il concetto, come quello di Barbara Puglisi (impossibile non riportare alla memoria il volto splendido di Claudia Cardinale scelta, nel 1960, da Mauro Bolognini per quel ruolo accanto al grande Marcello Mastroianni), la bella e fredda moglie del Bell’Antonio, eterea e incapace di nutrire sentimenti autonomi e liberi da risvolti moraleggianti o dall’influsso degli interessi imposti dalla famiglia. La ragazza è quasi un burattino manovrato dall’alto che imbriglia però nei suoi rigidi fili l’uomo che da lei sperava salvezza per la propria vergognosa impotenza o quantomeno devota e casta comprensione. O ancora la Beatrice Banchedi di Paolo il caldo, donna matura che ama crogiolarsi in strani nomignoli, quali Conocchia o Regnante, epiteti che alludono chiaramente al suo aspetto e ai suoi trascorsi sessuali; trascorsi dei quali raccatta ancora la gloria, respirandone l’odore ormai stantio, ma vivo quanto basta per allontanare lo spettro di un corpo in decadenza.
Comunque questa donna, oggetto o vittima, domina incontrastata l’universo maschile e ne polarizza gli interessi, condizionandone le azioni e incatenandone la fantasia e l’intelletto.
Ecco cosa dice in una conferenza il Professor Prampolini, personaggio che compare nei Racconti degli anni difficili: ”Voi donne possedete la superficialità che non ha soltanto il beato compito di non comprendere, ma ha anche quello di smorzare, di attutire, di snervare, quasi, le idee troppo dolorose e dispotiche… è un’opera altamente umanitaria quella di spargere una sottile e ristorante imbecillità nel mondo”. Parole agghiaccianti, ma assai efficaci per esprimere un sentire all’epoca comune. Anche la grottesca conclusione del Bell’Antonio – in cui il protagonista confessa al cugino, infervorato in discorsi idealistici, di aver sognato finalmente un amplesso giunto alla naturale conclusione – ci riporta all’ossessione della donna (da possedere sessualmente o da dominare psicologicamente) che si impone, in una paradossale e imbarazzante priorità, sulle sorti dei popoli in guerra.
Molta critica ha voluto riscontrare nell’opera di Brancati una forte componente misogina, e in questa direzione è possibile agevolmente spingersi senza timore di essere contraddetti. Sarebbe, però, un modello riduttivo, una liquidazione sommaria del pensiero di un autore brillante che probabilmente non avrebbe accettato e approvato questo giudizio su di sé. A ben guardare l’ironia, che spesso affiora per ridicolizzare certi atteggiamenti femminili, disinvolti o inibiti, è propria del suo modo di affrontare e di interpretare la realtà. Il sarcasmo è infatti riversato a piene mani anche sugli uomini, dei quali sono messi a nudo con occhio spietato tic, nevrosi, frustrazioni. L’umanità descritta nelle sue pagine è guardata attraverso la lente deformante di un umorismo di impianto pirandelliano, tanto più amaro quanto più larvatamente autobiografico.
Si potrebbe piuttosto parlare di irrisolto tentativo di comprendere a fondo il mondo femminile o forse di malcelato e inconscio senso di intima superiorità.
Che egli non sia stato un bigotto provinciale è dimostrato, a livello biografico, dall’aver sposato Anna Proclemer, una giovane attrice apertamente svincolata dall’atavico attaccamento al focolare domestico, riluttante ai legami definitivi e determinata ad ottenere tramite il proprio lavoro un’indipendenza economica irrinunciabile; ma che genericamente non ricevesse dalla donna un giusto equilibrio e che ne avesse una visione parziale e non sempre realistica è dimostrato, riferendoci ancora al privato, dal fallimento del suo matrimonio (Nord contro Sud in assetto bellico di amore/odio) e dalla visione romantica ed edulcorata che aveva della moglie alla quale si rivolgeva con la formula d’apertura “Santa” in sostituzione del consueto “Cara” nelle tante lettere racchiuse nell’epistolario Lettere da un matrimoniocontenente scritti suoi e della Proclemer.
Sul piano letterario poi la casistica è infinita. I protagonisti delle sue storie non sono mai appagati dai rapporti d’amore, siano essi occasionali o duraturi, e non riescono a vivere in perfetta simbiosi con la padrona dei suoi pensieri: sostanzialmente l’uomo domina in maniera prepotente, relegando la donna al ruolo che le compete da secoli, oppure subisce frustrazioni elevandola a feticcio.
Alfio Magnano, focoso padre del Bell’Antonio, si impone completamente sulla moglie dolce e remissiva secondo i più tradizionali canoni e giunge in un momento di collera a rivelarle, con una manovra di aguzzino, di avere altri figli sparsi per la città per esibire la propria potenza riproduttiva. Di contro, Paolo Castorini, protagonista dell’ultimo e incompleto romanzo Paolo il caldo (è del 1973 la trasposizione cinematografica diretta da Marco Vicario), subisce una dura sconfitta verbale e fisica dopo un tentativo di approccio con Ester Salimbene, donna determinata, politicizzata e dedita ad ideali maschili, tanto da subirne un forte contraccolpo psicologico.
E non mancano neppure gli squallidi ménages familiari in cui i coniugi vivono nella più totale indifferenza affettiva come il mediocre Aldo Piscitello e la scaltra Rosina, indimenticabili vittime del regime fascista nel racconto Il vecchio con gli stivali.
Sembra proprio che l’unica possibilità per l’uomo di realizzare un rapporto appagante, non solo a livello sessuale, possa attuarsi con la “Bambola” che, nel Don Giovanni in Sicilia (anche questo divenuto film nel 1967 per la regia di Alberto Lattuada, quasi a sancire il legame strettissimo tra Brancati, che fu fecondo sceneggiatore, e il cinema) il giovane Muscarà acquista a Parigi. Modello di perfezione nella sua mancanza di anima e di vita, la Bambola induce un austero commendatore a togliersi tanto di cappello per aver trovato in essa “l’Eterno femminino”.
La donna, insomma, si rivela come l’ennesimo polo in cui è palesato il dissidio tra spirituale e materiale, razionale e irrazionale, ironia e amarezza che è alla base dell’arte e della vita di Brancati, assertore dell’incomunicabilità tra i due sessi. Incomunicabilità che emergeva già con insistenza in un’epoca in cui la donna si avviava a prendere coscienza di sé e la “sicilianità” cominciava a proporsi come modello negativo e infruttuoso.
Nel caso di Brancati, però, come si accennava, l’incapacità di dialogo e di relazioni autentiche era minata alla base dalla sostanziale “incomprensione” di un universo ossessivamente amato e inseguito. Gli stereotipi femminili del fascismo, sebbene razionalmente superati, per gran parte della sua vita bussarono ancora alla sua coscienza tormentata, come fantasmi accantonati ma corrosivi, distorcendone le percezioni e determinando quel vano affannarsi intorno ad un mistero insolubile che, almeno alla sensibilità contemporanea, può risultare disturbante.
La svolta era comunque dietro l’angolo. L’autore, giustamente ricordato come acuto osservatore e fustigatore della società, che, nella maggior parte della sua produzione, non era riuscito a metabolizzare “il nuovo” della condizione femminile, con la commedia La governante (anch’essa divenuta film nel 1974 per la regia di Giovanni Grimaldi), immediatamente colpita dalla censura per via dell’accenno all’omosessualità, dimostrò di aver cominciato a cambiare pagina. I fantasmi erano stati sconfitti, i tormenti della donna protagonista, vittima dell’ipocrisia e della morale dell’epoca e, a sua volta, colpevole calunniatrice che si riscatta con il suicidio, sono analizzati in questa commedia, con maggiore finezza e con intuizioni più sincere. Non siamo ancora giunti alla comprensione totale del mistero femminile, ma sicuramente la strada era stata tracciata e, se l’autore non fosse morto di lì a poco, forse avrebbe potuto percorrerla con risultati sorprendenti.