La storia di Giorgio Ambrosoli è uno scrigno che racchiude tutto il meglio e tutto il peggio dell’Italia. Se l’esempio di quel silenzioso eroe borghese, non incline alle scorciatoie, è forse il punto più alto del servizio -tutto laico- che un uomo dello Stato può offrire al Paese, il grumo di potere a cui aveva scelto di opporsi rappresenta invece gli intrecci più pericolosi (ed eversivi) tra criminalità, finanza, massoneria e politica. Attorno alla vicenda di Ambrosoli convivono dunque due idee speculari, e inconciliabili, di essere italiani. Tempo fa il figlio Umberto -avvocato come il padre- raccontò di avere incontrato un importantissimo professionista milanese che gli aveva confidato di aver rifiutato l’incarico di liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona perché non era difficile intuire la matassa di interessi e l’alto livello di rischio personale che quel lavoro avrebbe comportato. “Mio padre decise di accettare quell’incarico proprio perché aveva avuto la stessa intuizione, ma voleva rendere un servizio al paese”. Non deve dunque stupire che ad organizzare la fiaccolata di stasera in Via Morozzo della Rocca -sotto casa Ambrosoli, dove l’avvocato venne ucciso 40 anni fa- sia l’associazione Libera. Perché in fondo l’omicidio Ambrosoli non è altro che un delitto su commissione, anticipato dalle telefonate di minaccia di Giacomo Vitale (nientemeno che il suocero di Stefano Bontate, il capo delle cosche palermitane) che certificano gli scopi di Cosa Nostra: togliere di mezzo chiunque si fosse messo di traverso al recupero delle montagne di denaro che la mafia aveva investito (e perso) nelle spericolate operazioni di Sindona. Per questo i proiettili che uccisero Ambrosoli non possono cancellarne il messaggio: stare dalla parte giusta è sempre possibile, e una vita libera è l’unica degna di essere vissuta