a cura della redazione di Cosa Vostra
Nel libro “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” – Linea Edizioni, trova spazio la ricerca della nostra associazione sulle mafie nel Nordest e in particolare in Veneto. Perché proprio questa (macro) regione? Abbiamo lavorato quattro anni, cercando articoli di giornale, inchieste giudiziarie, dialogando con esperti e poi con la cosiddetta società civile e ci siamo accorti che “nella narrazione della storia delle mafie, il Nordest – e il Veneto in particolare – ha assunto il ruolo del non luogo. Qui non c’è la mafia; qui non c’è mai stata la mafia; Felice Maniero non era il capo della Mafia del Brenta, ma della “Mala” del Brenta; lui non era un mafioso, ma era un bandito! Qui, nella terra che produce, motore trainante l’economia dell’Italia negli anni Novanta, si pensava solo a lavorare. E i mafiosi – tutti meridionali “per forza” e quindi pigri, nullafacenti e persino sporchi, secondo un pensiero razzista abbastanza comune, diffuso fino a poco tempo fa – non avrebbero potuto di certo trovare terreno fertile per mettere radici”.
Ma nel Nordest è nata fino ad oggi l’unica organizzazione mafiosa autoctona del Settentrione e riconosciuta come tale dall’Autorità giudiziaria. Eppure c’è chi ha voluto dimenticare…
Inoltre “attorno alla figura di Felice Maniero circolano migliaia di voci e mezze verità. Storie che hanno alimentato e alimentano una leggenda assai distorta su uno dei peggiori criminali e mafiosi italiani. A iniziare dai soprannomi che certuni si erano affrettati a dargli: “Faccia d’angelo”, perché era bello, “Felix”, oppure “Cotoa”, ad indicare lo stretto legame con la madre. I nomignoli, comunque, non aiutano a comprendere la capacità “criminale” di Maniero e anzi hanno il triste merito di renderlo quasi dotato di umanità. Nato a metà del Novecento e precisamente nel 1954, a Campolongo Maggiore, in provincia di Venezia, Maniero organizzò e fu a capo della Mafia del Brenta, la sua associazione criminale su cui improntò il “modello mafioso”. Non solo. Ma anche creare quel clima di violenza, omertà e favori. Tutti sapevano, tutti avevano paura. Lo si difendeva, ma non è dato sapere – ma solo ipotizzare – quanto il timore di possibili ritorsioni non fosse anche complicità”.
Ci siamo trovati di fronte a un primo problema da affrontare, diverso dalle altre mafie: mentre Cosa Nostra, le Camorre o la ‘Ndrangheta, con una storia ultra centenaria, hanno avuto vari mafiosi e capi di spessore, la Mafia del Brenta ne ha avuto uno solo, Felice Maniero, che ha plasmato la “sua” mafia su se stesso; pertanto per comprendere il fenomeno mafioso veneto occorre scindere il personaggio criminale dall’organizzazione mafiosa.
“La Mafia del Brenta è stata un’organizzazione mafiosa che ha agito nel Nordest dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Perché riesce a nascere in Veneto? Come si sviluppa? È stata davvero una mafia?” Sono queste le tre principali domande a cui abbiamo cercato di dare risposta. “Le mafie nascono dove hanno possibilità di nascere, crescere e svilupparsi. In Veneto, soprattutto, non abbiamo avuto uno sviluppo omogeneo e inquadrato su alcuni centri abitati che hanno fatto da polo d’attrazione per le industrie o i servizi; al contrario, troviamo uno sviluppo economico, e di conseguenza sociale, basato sull’espansione dell’impresa familiare.
Campolongo Maggiore, dove nasce Maniero e dove nasce di fatto la Mafia del Brenta, appare come una piccola comunità della provincia veneta in cui oggi campi coltivati e capannoni si alternano alle villette moderne, con il proprio giardino, i propri muretti grigi e pioppeti e siepi a delimitare confini largamente antropizzati mentre ci avviciniamo agli argini del fiume Brenta. Anche un tempo Campolongo sembrava incarnare il modello di provincia, lontana dai fasti di Venezia. Ma è una città a metà. Dista pochi chilometri anche da Padova. È essa stessa una terra “di confine”. Qui si sviluppa un gruppo criminale, composto da delinquenti che già negli anni Settanta si comporta come una proto-mafia. Nel 1974 il rapporto dei Carabinieri n.32/1 del 12 gennaio, descriveva così la situazione che si era creata: “Da alcuni giorni un gruppo di teppisti, di giovane età e palesemente armati, durante le ore serali e notturne, commette atti di intimidazione e di violenza ai danni di inermi cittadini e pubblici esercizi dei comuni del Piovese. In particolare i malviventi tentanto, con il loro provocatorio atteggiamento, di diffondere panico in alcuni centri a cavallo tra le provincie di Padova e Venezia onde creare un terreno su cui svolgere l’attività delittuosa contro il patrimonio, cui sono normalmente dediti, senza timore di essere denunciati. Tali episodi, infatti, hanno già scosso l’opinione pubblica locale con conseguente rifiuto da parte di alcuni denuncianti di sottoscrivere le dichiarazioni rese oralmente agli organi di Polizia. Ed esplode improvvisamente l’omertà nei testimoni e la sfiducia dei cittadini verso l’autorità”.
Il gruppo criminale di Maniero, in altre parole, riesce a imporsi sul contesto sociale perpetuando una serie di reati violenti che non trovano un’adeguata risposta da parte delle comunità interessate e, di conseguenza, facendo venire meno la reazione dello Stato”. Inoltre “l’associazione criminale di Maniero si dedicò al traffico di stupefacenti per lo più attraverso i contatti con le altre mafie, in particolare con Cosa Nostra – anche con i mafiosi in “soggiorno obbligato” nel Nord Italia – e alcuni esponenti di clan camorristi. In Veneto, infatti, nella fase in cui l’organizzazione di Maniero si sviluppava ancor di più, divenendo a tutti gli effetti un’impresa criminale […]. La Mafia del Brenta, in altre parole, rispose all’esigenza di espansione delle mafie meridionali, in particolare a quella di Cosa Nostra; creò una forte domanda all’interno del mercato della droga e inondò il Nordest con cocaina ed eroina. Poi, c’era il forte “vincolo associativo mafioso”, che la mafia veneta possedeva. Lo intuiamo dal comportamento stesso dell’organizzazione: chi si trovava impossibilitato a partecipare alle attività illegali – era in carcere – riceveva comunque assistenza, soprattutto in termini economici, da parte del gruppo”.
In queste righe viene descritta la “mafiosità interna” alla Mafia del Brenta; ma tale mafiosità la ritroviamo anche all’esterno, verso le famiglie dei criminali uccisi che non si rivolgevano allo Stato per ottenere giustizia; verso chi subiva i reati, ma non denunciava; in questo modo la comunità della Riviera del Brenta, in cui nacque tale organizzazione sembrava tollerare la presenza del gruppo criminale.
“Era nata così una vera e propria mafia, intesa – va detto – come organizzazione più che come fenomeno sociale, adattata al contesto geografico in cui operava”.
Nonostante sia diffusa l’idea che la Mafia del Brenta non abbia colluso con le classi dirigenti per appropriarsi delle risorse pubbliche, lo stesso Maniero ebbe contatti con esponenti delle istituzioni, sempre in ottica di sviluppare i propri interessi e le proprie strategie criminali. Felice Maniero, ad esempio, aveva contatti molto importanti con personaggi legati alle istituzioni croate.
Infine Felice Maniero in tempi recenti ha aperto alcune attività economiche apparentemente pulite, come “Anyaquae” – le casette dell’acqua installate in accordo con enti privati ma soprattutto pubblici. Cosa si nascondeva dietro l’azienda di Maniero? Un altro modo per riciclare denaro sporco? A tal proposito occorre notare che il numero e il valore dei beni che appartenevano alla Mafia del Brenta e che sono stati sottratti ai mafiosi e consegnati allo Stato, non sono poi così tanti se paragonati all’enorme mole di affari illeciti e soldi guadagnati. Quindi è giusto chiederci, ad esempio, che fine abbia fatto il patrimonio criminale di Felice Maniero. “Un indizio ce l’ha fornito lui stesso quando, di recente, ha raccontato alla magistratura di aver dato al cognato 33 miliardi di lire per riciclarli e di aver ricevuta indietro solo una minima parte di quei soldi”.
Ipotizzando che la maggior parte del denaro guadagnato illecitamente dalla Mafia del Brenta e dal suo capo sia sparito nei “tessuti sociali” del Nordest o fuori dall’Italia, allora possiamo ritenere che la stessa organizzazione criminale di Maniero sia stata una vera e propria mafia, capace di inquinare il contesto sociale in cui ha agito per il proprio tornaconto e quello dei suoi sodali.
[Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” – Linea Edizioni, 2019]