Dieci giorni fa Praga scendeva in piazza contro il premier Andrej Babis e per difendere l’indipendenza della giustizia. Almeno 250 mila persone, secondo gli organizzatori, avevano sfilato per le strade della capitale della Repubblica ceca, in quella che è stata la più grande manifestazione dai tempi della Rivoluzione di velluto che nel 1989 portò alla caduta del regime comunista cecoslovacco.
Oggi il presidente ceco Milos Zeman sostiene che chi manifestava nel 1989 lo faceva per reclamare elezioni libere, mentre le proteste attuali sono contro il risultato di un voto democratico. E il Parlamento ha dimostrato di pensarla allo stesso modo respingendo la mozione di sfiducia nei confronti del premier che era stata presentata dall’opposizione, nonostante i sospetti di frode e le manifestazioni massicce dei giorni scorsi per chiederne le dimissioni.
Al termine di una sessione-maratona di 17 ore, gli oppositori di Babis non sono riusciti a ottenere i 101 voti necessari per rovesciare il governo: 85 deputati hanno votato contro e 85 a favore. Nell’emiciclo erano presenti solo 170 parlamentari su 200.
E dunque sia il capo dello Stato che l’assemblea parlamentare credono che il governo di Praga debba proseguire il suo mandato fino alla scadenza naturale.
Ma la nuova Primavera di Praga non sembra destinata a esaurirsi. Gli organizzatori delle proteste hanno ribadito che continueranno a organizzare presidi per difendere la democrazia, per esprimere il dissenso nei confronti dell’establishment e tutta la preoccupazione del popolo ceco per il futuro del Paese.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la recente sostituzione del ministro della Giustizia con un politico vicino a Zeman, il giorno dopo che la polizia aveva chiesto l’incriminazione di Babis e di altre persone nel caso di frode su fondi europei. Babis è accusato anche di conflitto di interessi ed è nel mirino per il suo passato di agente della polizia comunista. Ma nonostante le manifestazioni di protesta (la prima si è svolta il 29 aprile), il premier non intende cedere, forte anche di quel 30% ottenuto dal suo partito populista Ano (Azione del cittadino scontento) alle elezioni europee di maggio.
Oltre al crescente malcontento sociale nel Paese si registra anche una preoccupante escalation antisemita. La Federazione delle comunità ebraiche in Repubblica Ceca ha registrato nel 2018 347 episodi di antisemitismo, in crescita rispetto
agli anni precedenti.
Il rapporto annuale di Fzo mostra un sensibile aumento dei casi di violenza e di discriminazioni, quest’ultima soprattutto sui social.
Gli attacchi fisici nel periodo in esame sono stati solamente due, entrambi nella capitale, va però ricordato che molte vittime non denunciano.
Stesso odio riservato anche alla comunità Rom. Secondo un rapporto di Amnesty International, insieme a Francia e Grecia, la Repubblica Ceca, è tra i Paesi che stanno attuando da tempo un radicale piano di smantellamento dei campi e di trasferimenti forzosi degli abitanti. In tutti e tre gli stati gli atti di violenza di matrice razzista contro i Rom sono pericolosamente aumentati e la risposta delle autorità è stata colpevolmente debole, se non complice.