Il sonno della ragione produce mostri

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Se né è parlato e se ne sta parlando molto, e a ragion veduta. Ciò che è accaduto durante il fine settimana, da un punto di vista mediatico, rappresenta una delle pagine più buie del giornalismo italiano. Dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Rega Cerciello si sta occupando la magistratura, come è giusto e normale che sia. E nelle prossime ore altri particolari si aggiungeranno a ciò che sappiamo già, con la speranza che presto venga fatta luce sulla morte di Cerciello, e sulle circostanze che l’hanno causata. Sul modo in cui l’intera vicenda è stata trattata, a caldo, dai mezzi di informazione tra venerdì e sabato scorsi, però, qualche riflessione si può e si deve fare.

Fabio Chiusi su “Valigia blu” ha ricostruito in modo preciso un giorno di ordinaria follia mediatico-politica, come sono state chiamate – a ragione – le ventiquattrore seguite all’agenzia delle 8.59 di venerdì 26 luglio (“Dalle prime informazioni… sembra [Mario Rega Cerciello] sia stato colpito da un uomo, probabilmente nordafricano, bloccato insieme a un altro perché ritenuti responsabili di furto ed estorsione”). Fin da subito, ricorda Chiusi, il leit motiv della giornata per chi si occupa di informazione è stata caccia all’uomo, anzi alla nazionalità del presunto, o dei presunti, assassini. A una manciata di minuti dal lancio ANSA delle 8.59 e da quello delle 9.09 (“è caccia a due uomini, probabilmente africani”), Adnkronos fa seguire un’altra agenzia, in cui si parla che del collega che era con Cerciello al momento dei fatti: “poteva morire anche lui, e si è salvato per caso e perché ha reagito alla violenza dell’altro magrebino”.

Prima ancora che i fatti possano essere accertati, circolano già due aggettivi “nordafricani”, “maghrebino”, intorno ai quali nelle ore seguenti gireranno aperture di testate giornalistiche (da “Liberoquotidiano.it” con le sue “belve africane” al “Tempo” con i suoi “tre marocchini” e un “francese di origine algerina”, fino al TG2 delle 13 con i suoi “nordafricani”), articoli di cronisti e opinionisti ma anche e soprattutto, come sappiamo, dichiarazioni di esponenti politici e rappresentanti del governo. E la caccia alla nazionalità si placa soltanto, parzialmente, quando le indagini accertano che i principali indiziati, invece, sono due studenti statunitensi. Molti degli articoli urlati delle ore prima vengono così rimossi, il tenore dei commenti in parte corretto (ma senza nessuna esplicita scusa ai lettori da parte di redattori e giornalisti), e le dichiarazioni dei politici cominciano a virare su altri elementi, quali le pene per i colpevoli e il contrasto alla droga, perché il reo confesso prima dell’omicidio avrebbe fatto uso di stupefacenti e di “psicofarmaci” come lo Xanax, superficialmente correlato da alcuni giornali al presunto comportamento criminale.

Molti aspetti colpiscono, di quelle ore di ansiogena caccia all’uomo (anzi, alla sua nazionalità) e alla notizia. E mi limito a elencare solo quelli relativi ai mezzi di informazione, lasciando a ciascuno il compito di valutare i comportamenti e le dichiarazioni dei politici.

La prima cosa è tanto banale quanto allarmante: un fatto di cronaca (perché di questo si è trattato: di un drammatico, ma comune fatto di cronaca) è diventato, quasi subito, un fatto politico, riguardante la gestione dei fenomeni migratori, dell’accoglienza, dell’ordine pubblico. Ma la lettura in chiave politica della cronaca, e l’evidenza data ad dati che esulano dalla cronaca specifica, non è sintomo di professionalità da parte di chi dovrebbe tener distinti, quanto più possibile e fino alla prova dei fatti, i due ambiti.

Questa osmosi tra cronaca a politica è avvenuta in modo tanto semplice quanto efficace: mettendo in evidenza a tutti i costi la provenienza (Nordafrica, Maghreb, Marocco, etc.) dell’omicida, in un contesto di massima enfatizzazione – nel discorso mediatico, pubblico, e politico – proprio di elementi categorizzanti e classificatori (“italiani” vs. non italiani, “italiani” vs. migranti). Ciò malgrado gli organi di stampa aderenti alla Federazione Nazionale della Stampa (come “Il Tempo” e le testate giornalistiche della RAI) abbiamo sottoscritto la “Carta di Roma”, il cui Terzo principio recita esplicitamente “Evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie e riflettere sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti”). A questo si somma la mancanza di ogni ragionevole dubbio, con l’uso dell’indicativo invece che del condizionale, come il buon senso richiederebbe fino alla chiusura delle indagini. Quest’ultima regoletta la conosce qualsiasi praticante di giornale, e dovrebbe essere tanto ovvia quanto seguita. Ma è la più disattesa, e il suo mancato rispetto la dice lunga sulla sciatteria logica, prima ancora che professionale, di chi scrive.

Sugli aggettivi di nazionalità molto si è detto, e non è un caso che tanto si sia tentato di fare, anche per mezzo della “Carta di Roma”. Ma la questione qui è duplice. A chi sostiene che occorre indicare la nazionalità per completezza dell’informazione, rispondo dicendo che questa prassi non è usuale né in Gran Bretagna, né in Germania, né in Francia ed altri paesi europei, dove la nazionalità si indica di solito solo se è fondamentale alla comprensione della notizia, e soprattutto solo dopo l’accertamento dei fatti. In Italia molte testate ancora se ne infischiano di questa cautela, e questo negli anni ha prodotto l’associazione di alcune nazionalità ad alcune tipologie di crimine, con un esplicita fallacia di generalizzazione (mentre il crimine è sempre individuale, così come la colpa e la pena) e una tendenza ad etnicizzare il crimine stesso. Tendenza che dovrebbe essere rigettata in primis da chi fa informazione.

Inoltre, e vengo alla seconda questione, l’uso impreciso (“nordafricano”), non saliente, o non giustificato dalla comprensione del testo non rivelano solo le cattive abitudini di chi scrive, ma influenzano anche le abitudini di chi legge. Nell’università dove lavoro, lo scorso anno ho tentato di fare un piccolo esperimento con colleghi del dipartimento di neuroscienze e una macchina che si chiama eye-tracker, la quale misura il movimento dell’occhio mentre si legge un testo su uno schermo. Ho chiesto a un campione di studenti erasmus italiani di leggere una serie di titoli di giornale relativi a fatti di cronaca in cui era presente un aggettivo che indicava nazionalità o appartenenza geografica: a volte di quelli che si trovano abitualmente nella titolazione di articoli di cronaca (“nordafricano”, “marocchino”, “albanese”, “nigeriano”, ecc.), a volte di quelli che – pur in presenza di notizie che ne potrebbero prevedere la presenza – non si trovano praticamente mai (“danese”, “belga”, “scandinavo”, “austriaco” ecc.). Non solo: manipolando i testi ai fini dell’esperimento, ho fatto leggere titoli in cui aggettivi come “nordafricano” ecc. erano associati ad azioni “positive”, e aggettivi come “danese” ecc. erano associati ad azioni “negative”. Registrando il movimento dell’occhio, che rivela anche il modo in cui il nostro cervello processa ciò che stiamo leggendo, si è notato che i partecipanti all’esperimento dovevano rileggere il testo in presenza di aggettivi come “danese” in contesti di cronaca nera, come se avessero bisogno di confermare a loro stessi di aver capito ciò che stavano leggendo. Il bias positivo associato ad alcuni aggettivi e nazionalità veniva disatteso, e quindi aveva bisogno di più prove. Meno sorprese, invece, in presenza di “nordafricano” ecc. in associazioni ad azioni positive (a causa del controstereotipo positivo: anche un “nordafricano” può fare qualcosa di buono), e nessun problema invece con “nordafricano” ecc. in contesti negativi, perché evidentemente veniva confermato un bias negativo acquisito da anni di esposizione a certi tipi di testi. Per farla breve, anni di cattive prassi nell’uso di aggettivi di nazionalità (tra l’altro sempre le stesse, nella stessa posizione tematica, cioè iniziale, associate a fatti di cronaca quasi sempre “nera”, e se non era “nera” era l’eccezione che confermava la regola) da parte della stampa italiana – questo suggerisce l’esperimento – hanno in parte modificato anche il nostro modo di leggere e di processare le informazioni. Altro che “sono solo parole”, altro che diritto di cronaca, o neutralità del linguaggio…

E allora? E allora la situazione è grave, e andrebbe descritta per quello che è. Ovvero: 1) la “Carta di Roma” viene spesso disattesa dalle stesse testate che l’hanno sottoscritta, e questo è un problema che dovrebbe chiamare in causa il Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, e dovrebbe comportare sanzioni che funzionino da deterrente; 2) ad essere carta straccia è, per molti, non solo la deontologia professionale, ma anche le regole di base del mestiere: quelle che ad esempio dovrebbero tener separata cronaca e commento politico, che dovrebbero suggerire cautela nell’uso delle fonti, che dovrebbero trattare la lingua italiana con cura e maggior precisione usando il condizionale quando non si hanno certezze, ma solo ipotesi non confermate, ad esempio); 3) la caccia alla nazionalità del criminale è un vizio molto italiano, che non trova riscontri nella stampa di molti paesi europei, e che produce non solo pessima informazione, ma anche la tendenza a generalizzare ed etnicizzare un crimine, contro ogni logica e norma giuridica; 4) anni di cattivo uso dell’aggettivazione di nazionalità hanno prodotto non solo prassi inveterate, cattiva professionalità, pressapochismo in chi invece dovrebbe restituire i fatti con cura, ma anche un cambiamento profondo nel modo di leggere le notizie da parte dei lettori, che si aspettano di trovare qualcosa proprio lì, in quel contesto, in relazione a quel dato fatto di cronaca. E se quel qualcosa non c’è, o non risponde alle loro aspettative, hanno difficoltà ad accettare e processare il testo, e quindi la notizia, per quello che è.

Molti danni sono stati fatti, in barba alla dignità di chi fa informazione, e al rispetto di chi grazie a quell’informazione dovrebbe conoscere i fatti, non la distorsione dei fatti. E molti sforzi sembrano essere stati fatti invano, se siamo sempre allo stesso punto. Anzi, se le cattive abitudini sembrano aver condizionato non solo il mercato della notizia, ma anche il nostro modo di leggere un testo. É ora quindi di richiamare tutti alle proprie responsabilità: i giornalisti, gli editori, i garanti dell’informazione. E i lettori: che devono finalmente non solo pretendere, ma anche avere più rispetto per se stessi: lamentandosi del pessimo servizio giornalistico che ricevono, e dimostrando di essere più intelligenti e attenti di chi li vorrebbe prendere per fessi.

*Federico Faloppa insegna Linguistica italiana nel Department of Modern Languages dell’Università di Reading


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