Ormai è maggiorenne: il G8 di Genova del 2001 compie diciotto anni, ma non è mai stato minorenne, ovvero è diventato subito grande con le sue macerie, una generazione cancellata dalla politica, i trenta giornalisti feriti e pestati da black bloc o forze di polizia, alcuni arrestati, le carceri speciali e le notti modello garage Olimpo. I processi sono ormai storia e i giornalisti che in quei giorni videro cadere molte ragnatele e molte certezze dai loro taccuini e microfoni, sono stati in molti casi preziosi testimoni con le loro indagini, le loro ricostruzioni. In un evento mondiale in cui esplose per la prima volta in modo massiccio, il ruolo della multimedialità, delle immagini, dei video. Migliaia di frame, migliaia di fotografie e la rete per come la conosciamo oggi, era solo all’inizio. Con quello dei free lance: lo ricordo bene, assistemmo circa 1400 colleghi di ogni parte del mondo come Associazione Ligure Giornalisti-Fnsi e come Ordine dei Giornalisti Liguri. Molti i free lance, in difficoltà soprattutto nelle fasi più pesanti: lavoro, cronaca e contestualmente sindacato ma ci siamo riusciti. Con una redazione (quella del, purtroppo, chiuso Corriere Mercantile) assalita dai BB. Alcuni colleghi arrestati dopo essere stati massacrati come Loreno Guadagnucci nella notte della Diaz o come una collega tedesca. O, ancora, come il giornalista inglese Mark Cowell (figura molto enigmatica) pestato a sangue all’ingresso della scuola.
La notte della Diaz (con la sezione carceraria provvisoria di Bolzaneto nella sede del reparto mobile genovese, unico caso nella storia repubblicana) è stata il riferimento di ogni successiva riflessione dalle violenze di piazza con o senza divisa, agli errori del “movimento non global”, al riscoperto ruolo dell’informazione (Paolo Serventi Longhi, allora segretario generale Fnsi credette da subito, tre mesi prima del G8, nel progetto di mobilitazione e di “soccorso” mediatico della Ligure). I processi, dicevo, sono ormai storia con alcune lacune (nessun processo e indagine articolata sulle violenze di piazza nonostante 300 tra esposti e denunce) pur nelle grandi verità che hanno accertato, a partire dalle responsabilità politico istituzionali e dalla guerra della “non collaborazione” che (soprattutto) la polizia di stato ha perpetrato contro la procura di Genova e i suoi pm.
Diciotto anni dopo cosa rimane? Senza dubbio la necessità e la costanza del ricordo e della memoria, della testimonianza. Aggiungo: ora abbiamo l’occasione per ragionare a mente fredda. Se qualche dubbio ancora c’era sul ruolo giustamente “molesto” che i giornalisti possono (devono) svolgere in piazza o nei palazzi del potere o nei tribunali ancora Genova è stata teatro di una sorta di memento: il pestaggio in piazza di Stefano Origone, cronista de la Repubblica. Tre mesi di prognosi, due interventi alle dita massacrate dalle manganellate mentre seguiva la manifestazione di protesta e gli incidenti seguiti a un comizio di Casa Pound nel cuore di Genova.
Se nell’immediato dopo G8 il neo questore arrivato a Genova (Oscar Fioriolli) si presentò con un esposto al procuratore Francesco Meloni relativo alla diffusione di notizie false e tendenziose da parte dei media, nelle ore successive al pestaggio di Origone politici e Questore da un lato esprimevano solidarietà e rammarico, tradendo con voci dal sen fuggite il loro reale pensiero: “quando sei lì sei lì, Origone era nel posto sbagliato, non ci siamo accorti che era un giornalista, le manganellate non erano date per uccidere”. No, diciotto anni fa come l’altro ieri, il giornalista non è diverso da un cittadino “comune”, perché l’equazione sarebbe “se sono in pubblico e questo è un cronista non lo meno, se è un altro sì”. Oppure, come accaduto alla Diaz, luci spente, false prove (le molotov taroccate) e giù di manganello sulla gente che dormiva.
In questi 18 anni è cresciuta la coscienza di noi giornalisti, noti e meno noti? In buona parte sì, sono venuti alla luce i casi dei colleghi minacciati, picchiati, vessati dagli intrecci politico mafiosi, molti sono sotto scorta, stravolti nelle loro vite professionali e private. Ma anche loro con qualche eco anche nel nostro mondo, subiscono il “dubbio”, quello che viene insinuato: cercano pubblicità, fanno i martiri, si inventano cose. Attenti perché nel 2001 il fenomeno fu analogo. Ci sono stati anni in cui il “potere” al vertice della polizia ha cercato faticosamente riconciliazioni ridipingendo il proprio volto, confessandosi a turno con qualche grande firma, scegliendo di farlo con qualche firma di media di “progresso”. Il caso Origone e i molti altri recenti casi nei confronti di cittadini “non giornalisti” (Cucchi, Uva, Aldrovandi, immigrati…) confermano l’involuzione e il quasi fallimento dopo molti anni, della grande lotta dei processi di smilitarizzazione e democratizzazione della polizia.
Con due ultimi segnali da non sottovalutare.
Il primo è rappresentanto dall’ultima sentenza sulle vicende genovesi Diaz-Bolzaneto. La Corte dei Conti aveva sollevato il problema (condannado a risarcimenti pesantissimi) del danno di immagine per funzionari, dirigenti, poliziotti, carabinieri, finanzieri condannati e responsabili degli abusi. La Consulta ha bocciato questa tesi. In sostanza pagherà i danni di immagine all’istituzione il furbetto del cartellino o qualche suo confratello, ma non chi ha infangato istituzione, ruolo e divisa che indossa ancora oggi.
Il secondo il reiterato silenzio dall’interno del mondo delle forze dell’ordine, non una ammissione, non una testimonianza, dai ruoli più bassi a quelli di vertice, ciascuno a tenere il proprio libro chiuso, la migliore garanzia di salvezza. In diciotto anni nessuno ha aperto il suo libro. I sindacati di polizia? Silenti, anzi no. L’unico, articolato e forte allarme è arrivato da Daniele Tissone ex giovane poliziotto di provincia (a Savona) oggi segretario generale del Silp Cgil. In audizione parlamentare ha evidenziato limiti, rischi, uso distorto che potrebbe essere fatto delle nuove normative dei decreti sicurezza. Avete letto qualcosa? Sì, ma su poche cronache e poche pagine. Diciotto anni dopo è tornato, purtroppo anche un po’ di nostro pudore. Tanto il reato di tortura (quella praticata nel carcere provvisorio e speciale di Bolzaneto) entrato nel codice ha una formulazione talmente macchiavellica da essere un quasi reato impossibile da dimostrare e punire. Diciotto anni dopo, l’ipocrisia continua.