Un alto prelato e un movente sessuale dietro la scomparsa di Emanuela Orlandi? Un’ipotesi confinata sempre a voce di quartiere e che invece, grazie a tre lettere e due testimonianze separate da un ventennio ma legate da un filo rosso di singolare e curiosa similarità, merita molta più considerazione.
Agli atti dell’inchiesta giudiziaria sul caso della giovane cittadina vaticana, dove giunsero tra l’aprile 1993 e il novembre 1995, le missive raccontano come nel misfatto sarebbe coinvolto un potente ecclesiastico amante del lusso. Se la prima lo menziona, descrivendolo come “intimo di Emanuela Orlandi” e adombrando uno scenario scabroso per la vicenda – “festini con giovanissime con largo uso di droghe” – le altre ne indicarono una sua eventuale effettiva responsabilità. “L’uomo che guidava la Mercedes blu in Vaticano su cui la sera del 22/06/1983 salì la ragazza è quel prete […] molto chiacchierato per i suoi vizi e gli affari spregiudicati” riporta l’ultimo scritto, citato inedito nella seconda edizione di Atto di Dolore insieme al primo. Mentre il secondo – già uscito su un altro libro relativo al caso – sostiene che Emanuela e il prelato avrebbero addirittura trascorso una notte d’amore fuori Roma per rientrarvi l’indomani con lei che non sarebbe ritornata a casa per la vergogna.
Ma quanto c’è di vero? Le prime due lettere lamentano errori ortografici che ne screditerebbero la bontà, Emanuela Orlandi mai si sarebbe dissolta nel nulla per sua volontà e, se confrontata con i verbali di famigliari e amici, non quadra la versione che lei, la sera della scomparsa, sarebbe passata in Vaticano. Una voce comunque rilanciata in un’intervista a Il Tempo nel luglio 1993 dall’allora cardinale Oddi: “Posso dire solo quello che a suo tempo ascoltai in ambiente ecclesiastico e che molti sanno. Emanuela quel pomeriggio, finita la lezione di musica, tornò a casa, all’interno della Città del Vaticano. Fu vista arrivare a bordo di un’automobile di lusso, che non attraversò la soglia di Sant’Anna, restando ferma all’esterno, su via di Porta Angelica”. In merito a ciò, Ercole Orlandi, padre di Emanuela che quel 22 giugno 1983 era a Fiumicino con la moglie, sempre a Il Tempo e sempre nel 1993, commentò: “Io non escludo niente”.
Fine delle perplessità. Perché poi trovarono riscontro le altre informazioni di quelle lettere. Ovvero: la diocesi dove operava il prelato nel 1983; la sua abitazione negli anni Novanta; la sua indole non certo indifferente alle agiatezze; il suo ruolo di rilievo nella Curia. Più che il suo nome, che potrebbe essere stato fatto per screditarlo in merito a giochi di potere all’ombra del Cupolone (quelle carte riportavano un generico “Non possiamo firmare in quanto appartenenti al clero”), sotto la lente d’ingrandimento finisce lo scenario dipinto: una pista a sfondo sessuale, interna le Mura Leonine, per la sparizione di una quindicenne cittadina di quel Vaticano che, a riguardo, ha percorso la via dell’immobilità. Una pista senza dubbio bollente, ma non certo campata in aria. Basti pensare agli episodi di pedofilia che hanno investito il clero e che Emanuela Orlandi era cresciuta in mezzo ai sacerdoti, verso i quali nutriva fiducia anche per un anagrafe amico più dell’ingenuità che dell’esperienza.
Vent’anni dopo la loro comparsa, a quelle lettere rinviano anche due testimonianze. Ad accomunarle, la presenza degli stessi elementi: una macchina scura, un ecclesiastico di rango e l’ombra del sesso. Nel 2014 un’amica di Emanuela mi raccontò che quest’ultima, pochi mesi prima di scomparire, le aveva confidato, con imbarazzo più che comprensibile, di essere stata infastidita pesantemente da un monsignore durante una passeggiata nei Giardini Vaticani. Disse che si era preso delle “confidenze”. Una compagna della scuola di musica, nel 2011, ricordò invece che nelle settimane precedenti la scomparsa, in qualche circostanza, un’auto di grossa cilindrata, carrozzeria e vetri scuri, passava a prendere Emanuela all’uscita.
Episodi mai affiorati – mai sentite dagli inquirenti le due nonostante i nomi fossero a disposizione – come mai appare, nei verbali 1983 dei genitori di Emanuela, in che modo lei ritornasse a casa dalla scuola di musica. Sul punto c’è però la risposta di Ercole Orlandi a precisa domanda rivoltagli dal giudice Ilario Martella il 1°dicembre 1987: “Di norma, Emanuela tornava a casa per conto suo, soprattutto nel periodo estivo; solo quando usciva a ora tarda, ci avvertiva preventivamente, sicché o io, o mia moglie, o mio figlio Pietro andavamo a prelevarla a scuola”. Il 22 giugno 1983, oltre a essere estate, la ragazza si mosse in autonomia tanto che alla fine delle lezioni avrebbe dovuto raggiungere gli amici al “Palazzaccio”. Invece stazionò a lungo su corso Rinascimento. Cioè dalla parte opposta. Perché?
Altre domande. Davvero il mistero di Emanuela Orlandi risiederebbe nell’ambiente a lei più prossimo? Saremmo quindi al cospetto della strada possibile orizzonte di verità qui esplicitata nel 2017? Come mai la “pista interna” è rimasta a un primo livello di esplorazione? Perché si preferì investigare altri versanti o a causa di forti resistenze che ostacolarono maggiori approfondimenti?
La verità passa anche, e soprattutto, dalla chiarificazione di questi interrogativi. Perché come diceva Sherlock Holmes: “Sono proprio le soluzioni più semplici quelle che in genere vengono trascurate”.