Where you from ? Kabul, risponde il bambino prima di correre verso il pallone e calciare in porta. Cosa lo abbia condotto fino a qui, su un campo di calcio nel nord della Bosnia Erzegovina, è facile intuirlo. La povertà, la violenza, l’estrema insicurezza della capitale afgana, quell’assenza di futuro che induce ogni giorno migliaia di persone a cercare una vita migliore in un posto diverso da quello chiamato casa.
Lui -il ragazzino che calcia di destro e pronuncia il nome della capitale mettendo l’accento sulla a- è uno dei seimila migranti intrappolati da mesi sulla cosiddetta “rotta balcanica”, quella via di speranza che qualcuno vorrebbe sigillare con la costruzione di un muro a separare nuovamente Est e Ovest Europa.
Lo incontro a Bosanska Krupa nella prima delle tappe organizzate dalla carovana “Football No Limits”, un progetto di cooperazione della ong Ipsia-Acli che da quattro anni percorrere il territorio bosniaco con l’obiettivo di portare un sorriso utilizzando il linguaggio del pallone. Un’iniziativa che coinvolge quelle società e comunità locali che, in un paese ancora e nuovamente diviso dal nazionalismo, non fanno distinzioni tra i gruppi religiosi. E del resto un campo di pallone popolato da bambini resta il luogo ideale dove praticare l’uguaglianza.
Così, accanto ai cento ragazzini che appartengono alla municipalità di Krupa, a seguire le attività di “Football No Limits” ce ne sono una quarantina che provengono dai campi profughi della vicina Bihac. Sono afgani, pachistani, iracheni e comunque provengono tutti da quelle terre dove la pretesa occidentale di trasportare democrazia e libertà sui carichi delle “bombe intelligenti”, ha prodotto le catastrofi umanitarie che mettono oggi in crisi l’Europa.
Ipsia, organizzazione presente in questi territori fin dai tempi dell’ultima guerra balcanica, lavora da ormai due anni con i migranti bloccati nel cantone Una-Sana in un progetto che coinvolge anche la Caritas Ambrosiana. Per loro è come se l’emergenza in questa terra non fosse mai finita e lo spiega bene Mauro Montalbetti, presidente di Ipsia: “Dopo la fine della guerra, la speranza di questo paese era quella di entrare a far parte dell’Unione Europea. Non solo queste aspettative sono state frustrate, ma ora una nazione povera come la Bosnia Erzegovina si trova a fronteggiare da sola l’emergenza migranti. Certo, qualche aiuto dall’Unione Europea arriva, ma la maggioranza degli stanziamenti riguarda il sistema di controllo per impedire ai migranti di varcare i confini dell’Unione. Solo una minima parte è invece destinata all’intervento umanitario che sarebbe quello più urgente”.
Che questa ricostruzione non sia esagerata lo dimostra il fatto che, proprio a Bihac, uno dei campi di accoglienza per i migranti sia sorto sopra una discarica abbandonata. Qui si vive al di sotto degli standard sanitari minimi: “In tutta la rotta balcanica sono bloccate circa seimila persone, un numero tutto sommato contenuto che non sarebbe un problema redistribuire sul territorio europeo -continua Montalbetti. Proprio questo dimostra quanto serva un cambiamento nelle regole sull’immigrazione, un’assunzione di responsabilità collettiva da parte dell’Europa che non scarichi sui territori più fragili la gestione del problema”.
Sul prato di Krupa il sole inizia ad abbassarsi e i cinquanta migranti tornano verso il pullman che li ricondurrà al campo. La partita è finita ma il vero gioco per loro, “the game”, sarà quello di provare un giorno a varcare la frontiera per inseguire il sogno di un futuro in Europa. Che ce la facciano o no, resta il dovere di tenere la luce accesa sul destino di queste persone, donne, uomini e bambini in fuga e intrappolati nel cuore dell’Europa. Un dovere per noi giornalisti provare a dimostrare che l’informazione può essere meglio di una distratta e cinica politica europea.
*Stefano Tallia, segretario Associazione Stampa Subalpina