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COLOMBO “AVANTI CONTRO LA CORRUZIONE LA SFIDA NON È FINITA”

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MILANO – «Adesso sono io il più vecchio di quelli di Mani pulite. Personalmente sento il vuoto di un affetto profondo, inciso dal passaggio pesante e grave del tempo. A livello pubblico il vuoto lasciato è quello di un eccezionale punto di riferimento, intellettuale e culturale, di una visione lucida degli eventi. Spero non si offenda nessuno, ma con questo addio si fa più evidente come nel nostro Paese quel certo modo di intendere l’ esercizio della giurisdizione, proprio di Francesco Saverio Borrelli, si sta progressivamente perdendo».
Gherardo Colombo si toglie gli occhiali, li appoggia sul tavolino e spinge lo sguardo oltre la finestra.
Oggi ha 73 anni e ha conosciuto il magistrato-simbolo della procura di Milano quasi 45 anni fa. Ha lavorato al suo fianco dal 1989 al 2002 e non è rimasto solo un collega: come Gerardo D’ Ambrosio, con il tempo, si è trasformato in un amico e in qualche misura in un erede morale.
«In questi anni – dice al rientro dall’ ultimo saluto in ospedale – non ci vedevamo assiduamente, ma non ci siamo mai persi di vista. Ci si incontrava a pranzo, più spesso a cena, a volte assieme alle nostre mogli. Dopo l’ improvvisa scoperta della sua malattia sono andato a trovarlo al San Raffaele, qualche volta a casa, ancora pochi giorni fa all’ Istituto tumori. È rimasto, fino all’ ultimo, la persona di sempre, accompagnato dalla sua signorilità, dalla sua gentilezza, dal disincanto verso le cose del mondo, ma sempre saldo nel principio che prima di tutto viene la dignità».

Quale pensa sia l’eredità che Borrelli lascia all’ Italia?
«Saverio non è stato soltanto il procuratore di Mani pulite. Prima è stato procuratore aggiunto per qualche anno, e prima ancora ha svolto lungamente le funzioni di giudice. Lascia tante cose: la sua umanità, l’ acume, la sagacia, anche il sarcasmo con il quale reagiva quelle rare volte in cui le aggressioni che subivamo superavano la soglia della sopportazione».

E sul piano pubblico?
«Il senso della giurisdizione, dell’ affermare il diritto, del possedere la formazione intellettuale del giudice, imparziale e terzo, anche facendo il pubblico ministero. E poi la capacità di riversare la sua vasta cultura nell’ esercizio della funzione, evitando che divenisse un rito burocratico routinario, incurante del rispetto per la persona, di qualunque reato potesse essere accusata.
Saverio ci ha mostrato che si può fare il procuratore senza obbedire al potere (al potere, non alle istituzioni, che sono una cosa diversa), contrariamente a quanto succedeva fino a poco prima della sua nomina. È questa differenza la sua eredità collettiva».

Cosa intende dire?
«Anche in quella che veniva definita la capitale morale d’ Italia la tradizione voleva che il capo della procura evitasse di disturbare il potere. Ho esperienze personali al riguardo. Il suo predecessore, per esempio, cercò di convincere Giuliano Turone e me, che avevamo scoperto le carte della P2, a restituirle a Licio Gelli senza nemmeno guardare quelle che ancora non avevamo potuto vedere».

Oggi manca un Borrelli al Paese?
«Moltissimo e per tanti aspetti. Oggi, per esempio, la cultura del pubblico ministero si divarica sempre più da quella del giudice, con il risultato che si corre maggiormente il rischio che si celebrino dibattimenti nei quali la prova è irrimediabilmente carente e l’ imputato alla fine viene assolto dopo un processo che gli ha creato danni a volte difficilmente riparabili.».

È vero che aveva un carattere spigoloso?
«Non direi. Era disturbato dagli atteggiamenti intrusivi, dall’insistenza priva di senso. Ma tendeva, anche quando per altri sarebbe stato quasi impossibile, a non abdicare dalla sua signorilità».

La figura di Borelli, come la sua e come quella dei vostri colleghi del pool di Mani pulite, è indissolubilmente legata a Tangentopoli: avete mai parlato degli effetti che ha avuto sul Paese?
«Sì e i nostri punti di vista concordavano. Mani pulite è stata la dimostrazione scientifica di come un fenomeno tanto diffuso, capillare e sistematico, come la corruzione, non possa essere espulso dalla società attraverso un’ indagine penale».

Nel gennaio 2002, alla vigilia del suo famoso «Resistere, resistere, resistere», vi aveva anticipato il suo richiamo estremo al ruolo terzo del potere giudiziario?
«Quel giorno Borrelli sapeva di tenere per l’ ultima volta il discorso inaugurale dell’ anno giudiziario.
Sarebbe andato in pensione nell’ aprile dello stesso anno, compiendo 72 anni. L’ appello non era rivolto al passato, ma al futuro: incitava la cittadinanza e noi tutti ad andare avanti, a resistere alla normalizzazione in corso».

Quando capiste che il vento, verso Mani pulite, stava girando?
«Saverio ed io ne abbiamo parlato spesso. C’ è stata interazione tra l’ insofferenza del cittadino comune, che sempre più si riconosceva nella corruzione di basso livello, e la politica, insofferente al controllo del giudice, che progressivamente ha modificato il quadro legislativo, rendendo sempre più difficile sanzionare la corruzione».
Le vostre inchieste cambiarono la geografia politica dell’ Italia e la Prima Repubblica venne archiviata.

Quale era la vostra percezione in quegli anni, quale la valutazione in quelli successivi?
«Oggi è giusto parlare dell’ addio a Borrelli. Il tema non è Mani pulite. Ci vorrebbe troppo spazio e sarebbe indelicato verso di lui».

Ormai però Borrelli non può più difendersi dagli attacchi, da chi coglie la sua morte per rinnovare l’ accusa di aver guidato «un colpo di Stato giudiziario»: avete mai parlato della possibilità di simili giudizi postumi? Cosa risponde lei oggi in qualità di amico e di collega?
«Credo che la questione possa essere risolta andando a leggere le sentenze e le gazzette ufficiali. C’ è qualche cosa che delle prime può essere smentito? Per le seconde, quante sono le leggi emanate in quei periodi che hanno reso più difficile scoprire la corruzione e più facile uscire dal processo (abuso d’ ufficio, falso in bilancio, prescrizione, per citarne qualcuna)? E se c’ è ancora chi sostiene, magari dietro a frasi ad effetto, che si sia stati parziali, per cortesia almeno dopo una quindicina di anni dalla fine di indagini e processi ci porti perlomeno uno brandello di prova».

Come affrontava Borrelli le crescenti difficoltà?
«Lui era il capo della procura, non si occupava solo di Mani pulite. Seguiva le inchieste più delicate. Però è stata la persona capace di coordinare il pool e di tutelarlo dagli attacchi, esponendosi personalmente per proteggere le indagini e chi le conduceva. Ha sempre mantenuto questa correttezza, anche quando non era del tutto d’ accordo con le nostre iniziative».

Perché lei insiste sull’importanza dell’idea delle istituzioni trasmessa da Borrelli?
«Perché coincide con la Costituzione e il suo significato più profondo.
Saverio non ha fatto il burocrate, era in ufficio dal mattino a sera inoltrata, disponibile nei confronti di tutti.
Dirigeva la procura con la consapevolezza che il nostro lavoro incideva enormemente sulla vita dei cittadini. Per questo curava la tutela delle garanzie per l’ indagato, ma anche quelle che riguardano la collettività».

Borrelli, su Mani pulite, ha scritto che «non valeva la pena buttare all’ aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale»: condivide la sua analisi?
«Quella stagione ha sollevato il velo sullo specchio dell’ Italia. La corruzione era un sistema e serviva al finanziamento illecito dei partiti, cuore delle istituzioni. A Milano non si accendeva un fiammifero senza pagare una tangente: mi riferisco a esponenti di tutti i partiti che contavano in città e non solo. Oggi Mani pulite è finita ma la corruzione resiste, anche se – fino a prova contraria – non è più un sistema, come allora. Ma credo che quella frase si riferisca a un altro problema».

Quale?
«Saverio si era reso conto che in quegli anni in Italia non sarebbe potuto succedere nulla di diverso rispetto a quanto è successo. La corruzione era sistematica, sorretta da una diffusissima cultura che a qualsiasi livello sociale la consentiva.
Con quella frase ha manifestato una grande delusione, consapevole che quando la cultura (cioè la tolleranza della corruzione) e le leggi confliggono, a rimetterci sono queste ultime». Solo quando il colloquio volge al termine, Gherardo Colombo riconduce il suo sguardo dentro la stanza. Si commuove e per la prima volta la sua voce s’ incrina. «Basta così – dice – Aggiungo solo ciò che siamo detti una delle ultime volte che ci siamo potuti parlare. Concordammo sul fatto di non aver omesso di fare, come magistrati, solo il nostro dovere e solo ciò che era necessario. Forse, mi disse Saverio, in qualche circostanza avremmo potuto essere formalmente ancora più delicati e maggiormente prudenti. Anche questa umanità ha fatto di lui una figura che segna un prima e un dopo».

la Repubblica, 21 luglio 2019

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