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Addio alla “Rai Radiotelevisione”. Introduzione al convegno di Articolo 21 sulla Rai multimediale

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La Rai si appresta ad affrontare un mutamento radicale della sua struttura organizzativa: il piano industriale prevede, infatti, una riorganizzazione del modello ideativo-produttivo incentrata sui contenuti piuttosto che sui mezzi di diffusione. L’AD Salini, l’ha definita una “rivoluzione” ed effettivamente potrebbe esserlo perché l’attuale struttura verticale composta da monadi monomediali che non comunicano, e da reti e testate in concorrenza tra loro, risale alla riforma del 1975, una riforma fortemente influenzata dalla politica di “unità nazionale” e dall’esigenza di garantire un effettivo pluralismo in quella che fino ad allora era stata una televisione totalmente dipendente dall’esecutivo. Pertanto, prima che sia accantonato, è bene rendere l’onore delle armi a un modello organizzativo che ha sancito il passaggio dalla Rai “televisione di Stato” alla Rai “servizio pubblico” sotto il controllo e l’indirizzo del Parlamento. Per circa venti anni, e soprattutto nei primi cinque, questa struttura ha assicurato, tra alti e bassi, una certa indipendenza a dirigenti, giornalisti e autori: un’autonomia che ha sprigionato creatività, anticonformismo e apertura al rigoglioso pluralismo della società civile di quegli anni. Parliamo della Rai di Massimo Fichera, Andrea Barbato e Angelo Guglielmi.

Con il declino della Prima Repubblica questo modello degenera in lottizzazione e l’affidabilità politica prende il posto della competenza. Non a caso due di quei tre direttori saranno giubilati proprio dagli stessi partiti che li avevano indicati.

Tuttavia, viene da chiedersi come sia stato possibile tenere in vita una struttura che era stata concepita quando la Rai era in regime di monopolio, anche dopo la nascita della Tv commerciale, della Tv a pagamento, di Internet e dei colossi dello streaming on demand.

Come si è potuto pensare che la Rai potesse affrontare questi giganti con strutture di piccolo cabotaggio come le reti e le testate, che a malapena possono produrre per il proprio palinsesto, oppure che potesse sbarcare su Internet con una società bonsai come RaiNet? La creazione di format intermediali richiede grandi investimenti, coproduzioni internazionali, alleanze strategiche e profili professionali che progettano e realizzano prodotti per molti-media; quindi, strutture altamente specializzate e dotate di adeguate risorse economiche e produttive: nulla a che vedere con le attuali direzioni di rete e le loro gracili Strutture di programmazione che, a causa della loro dimensione, i format possono solo acquistarli o darli in appalto piuttosto che idearli e produrli, con la conseguenza di omologare sempre più l’offerta di servizio pubblico a quella delle Tv commerciali. Oltretutto l’impianto verticale “per media” genera inevitabilmente sovrapposizioni con il risultato che, stando così le cose, se si esclude la fiction, in Rai tutti fanno tutto e, verrebbe da dire, contro tutti.

Dal 1975, tutti i mutamenti avvenuti nell’organizzazione aziendale si sono distinti per la loro estemporaneità generando una sorta di stratificazione geologica in cui pezzi di azienda si sono venuti sovrapponendo ad altri in maniera del tutto accidentale e incoerente: dalla costituzione di divisioni e società in vista di una parziale privatizzazione (1998) all’accentramento dei poteri gestionali nelle mani del Direttore Generale (2004) fino al timido accenno a un’organizzazione per generi con la creazione di una Direzione Intrattenimento (2011) subito abortita perché entrata in rotta di collisione con i direttori di rete che già avevano dovuto subire la nascita di Rai Fiction che, non a caso, si è rivelata – insieme a Rai Educational – l’unica struttura che ha rafforzato l’identità di servizio pubblico della Rai, a prescindere dagli orientamenti politici e ideali di chi la diretta.

L’attuale modello organizzativo non corrisponde a nessuno dei quattro modelli canonici (gerarchico, divisionale, a matrice, funzionale) sebbene li comprenda tutti, come un collage o un pot-pourri. Ha l’aspetto di un arcipelago composto di isole editoriali sparse e non comunicanti, di Centri di produzione organizzati come officine tayloristiche che demotivano i lavoratori e sedi regionali vissute come un fardello laddove sarebbero una preziosa risorsa per dare visibilità al “mondo della vita”, a quel pluralismo culturale e sociale che i talk show hanno contraffatto riducendolo a puro artificio retorico e rissoso.

Detto questo, anche da un punto di vista logico, non si comprende perché un’impresa che produce contenuti, sia organizzata per media e non per generi.

Il modello organizzativo di un’azienda non può prescindere dalle finalità che si propone, in altre parole, dalla sua mission. Questo vale soprattutto per quegli apparati che producono cultura e informazione. Ricorrendo a una metafora, potremmo dire che la Rai non è un autobus la cui direzione di marcia è nelle mani di chi la conduce; piuttosto la si potrebbe paragonare a un tram; se insieme al manovratore non si cambia anche il tracciato delle rotaie, si potrà variare la velocità o il numero delle fermate, ma il percorso e la destinazione rimarranno sempre gli stessi. Quindi è illusorio pensare che sia sufficiente mettere al posto di comando persone competenti per fare della Rai una media company dinamica in grado  di rispettare gli obblighi previsti dal contratto di servizio: su queste fondamenta obsolete qualsiasi piano industriale ed editoriale crollerebbe su se stesso.

Al modello organizzativo per generi è stata da più parti opposta l’obiezione che sarebbe quanto meno imprudente, se non addirittura pericoloso, mettere nelle mani di un solo direttore tutta l’informazione, e così per tutti gli altri generi.

Naturalmente, sarebbe da ingenui sottovalutare questo rischio, ma fino a quando non si comprenderà che la professionalità nel servizio pubblico richiede un requisito in più che si chiama “indipendenza”, nessuna alchimia alla Cencelli potrà evitare la caduta nella faziosità. Il direttore di un telegiornale della Rai deve dipendere solo dalla verità: non da quello che vuole il telespettatore, e neanche dal suo orientamento ideale e politico. Certo bisognerà studiare forme di bilanciamento dei poteri dei direttori delle aree di genere; all’informazione potrebbe essere assegnata una configurazione in parte diversa in considerazione del carattere, per così dire “costituzionale” di questo genere; ma di fronte all’irreversibile declino dell’azienda dovuto al cedimento strutturale della sua impalcatura, non ci riserve che tengano.  Il problema esiste e oggi stesso si potrebbe cominciare a discuterlo.

Lo spostamento del baricentro dalle Direzioni di rete a quelle di genere sconvolgerà l’organigramma aziendale; ma la rivoluzione vera e propria riguarderà i profili professionali di dipendenti e dirigenti, il modo di ideare, progettare e produrre. L’attuale organizzazione per media richiede competenze necessariamente limitate al linguaggio e ai format del medium per cui si lavora (radio, Tv, web, ecc.); al contrario, nell’organizzazione per generi le competenze devono essere intermediali perché i programmi, i prodotti e i servizi che si realizzano all’interno di ciascuna factory tematica dovranno essere distribuiti, in differenti versioni, su tutte le piattaforme, rispettandone le peculiarità espressive e narrative.

Ragionare secondo la logica intermediale in un mondo che fino a ieri è stato monomediale è come imparare a usare il computer a cinquant’anni. Paradossalmente, quanto più procedure e modelli organizzativi appaiono superati, tanto più tenace è la resistenza al cambiamento anche quando non sono in questione le catene gerarchiche e i rapporti di potere. Pertanto, non ci sarà da stupirsi se emergeranno resistenze psicologiche del tipo Bartlebly lo scrivano. Chi ha fatto televisione generalista per tanti anni farà fatica a inoltrarsi nel linguaggio e nelle tecnologie dei media digitali. Perché dovrebbe abbando­nare qualcosa che conosce e sa fare, per qualcosa che ignora? Dovrà essere motivato a farlo, altrimenti dirà: “Preferirei di no!”, e questo può avvenire solo se verrà coinvolto attivamente, insieme a tutti i dipendenti e i dirigenti nel processo di riorganizzazione e di aggiornamento professionale.

Lo smantellamento delle attuali “monadi” monome­diali dovrà accompagnarsi a una radicale ridefinizione dell’ideazione e progettazione dei programmi, dei modelli produttivi, delle procedure burocratiche e dell’uso delle tecnologie.

In particolare, le figure professionali dovrebbero diventare poliedriche, cioè integrare la tradizionale predisposizione all’interdisciplinarità, tipica del lavoro nei mass media, con una certa dose di intradisciplinarità, un neologismo che sta a indicare la necessità di arricchire le proprie competenze monomediali con i rudimenti di linguaggi e mezzi espressivi di altri media e piattaforme.

Il programma-prodotto di una Direzione di genere è modulare e polivalente perché deve dare luogo a diverse versioni differenti per linguaggio, durata, format, e tipologia di utenti. Pertanto, la versione televisiva per la messa in onda sarà solo una delle tante versioni dell’opera intermediale, perché quelle ulteriori non saranno semplici repliche (come accade ora per Rai Play), né un banale adattamento, ma altrettanti prodotti originali; quindi, per realizzare le versioni diverse da quella televisiva si dovrà attingere di nuovo alla materia prima, al girato, che sarà lavorato da chi, operando nella stessa factory tematica, dovrà ideare e realizzare prodotti per le nuove piattaforme. Gli archivi della Rai conservano solo i prodotti finiti: il girato è uno scarto e, in quanto tale, non viene catalogato. Anche le Teche dovranno cambiare.

Nella Rai attuale le strutture generaliste producono per un solo medium, a utilità immediata e solo per la messa in onda; al contrario, nell’azienda organizzata per generi le strutture tematiche producono per tutti i media, a utilità ripetuta e per il mercato internazionale; da qui la necessità di un aggiornamento professionale in senso culturale e intradisciplinare.

Weber definiva la professionalità come l’“azione razionale rispetto allo scopo”: se cambia lo scopo, i profili professionali precedenti – se non saranno arricchiti da nuove competenze e, soprattutto da una nuova forma mentis – si riveleranno il principale ostacolo al cambiamento. Oltretutto, la riorganizzazione è da considerarsi una buona occasione per abbandonare definitivamente la lunga deriva tayloristica che ha prodotto l’impoverimento dei profili professionali e una diffusa demotivazione a tutti i livelli, non solo tra gli addetti alla produzione. L’auspicio, dunque, è che nel piano industriale della Rai organizzata per generi sia previsto un intelligente e vasto piano di aggiornamento professionale e che ci si armi d’im­magi­nazione burocratica, un ossimoro, senza il quale, tuttavia, ogni disegno di cambiamento è destinato a fallire.


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