Tre statue per quattro sedie. Sono quelle che vedono in questi giorni a Spoleto, vicino a piazza Campello, abitanti e turisti richiamati dal Festival dei Due Mondi. Le tre statue, realizzate dall’artista Davide Dormino, raffigurano Edward Snowden, Bradley Chelsea Manning e Julian Assange, che con le loro rivelazioni di segreti militari e diplomatici hanno posto a livello planetario la questione del diritto delle comunità di conoscere i reati che vengono commessi in nome di asserite esigenze di sicurezza nazionale.
Un tema di cruciale importanza, che chiama in causa chi ha il dovere di informare e chi ha il diritto di sapere. Per questo numerosi voci si sono alternate sulla quarta sedia, quella vuota, per prendere la parola sabato 6 luglio nell’iniziativa organizzata dall’associazione ‘Anything to Say?’ in raccordo con le rappresentanze del giornalismo italiano.
Compatta la difesa che dal giornalismo professionale viene fatta dell’azione e dei diritti di chi, in nome dell’interesse generale dei cittadini, vìola segreti, si tratti o no di un giornalista. Come ha fatto di recente la Federazione Internazionale dei Giornalisti (Ifj), condannando la decisione del governo Usa di perseguire il cofondatore di Wikileaks, Julian Assange, sulla base dell’Espionage Act e pronunciandosi contro la sua estradizione, tanto più perché richiesta da un paese – gli Usa – nel quale è ancora in vigore la pena di morte.
Ma la sedia vuota è stata riempita anche dalle allarmate denunce sulle tante, troppe restrizioni che stanno investendo il diritto-dovere di informare pure in situazioni meno clamorose di quelle denunciate dai 3 ‘whistleblowers’. Come da ultimo è accaduto per esempio alla redazione di Fanpage.it, oggetto di una richiesta della magistratura – respinta come inaccettabile dal direttore della testata e dal sindacato dei giornalisti – di rendere pubbliche le fonti di una sua delicata inchiesta su un traffico illecito di rifiuti.
Su quella sedia vuota sono tornate ad echeggiare le annose richieste che il mondo dell’informazione rivolge ai governi e alle maggioranze di turno: prima fra tutte il varo di una norma contro le querele-bavaglio, per spuntare le armi ai potenti che ancora oggi, senza pagare pegno, possono “sparare” richieste di risarcimento per milioni di euro al solo scopo di bloccare le inchieste più fastidiose.
Richieste che però – lo sappiamo bene come giornalisti – difficilmente arriveranno al successo se rimarranno le esigenze di una categoria. C’è bisogno di una alleanza più larga, in cui possano far sentire il loro peso i cittadini che vogliono sapere. Solo così la legge sulle querele-bavaglio potrà diventare realtà: se sarà non la ‘concessione’ ad una professione, ma il riconoscimento del diritto di un’intera comunità civile, del quale i giornalisti sono nient’altro che uno strumento.
Foto: credits Marika Moretti