L’aspetto favorevolmente sorprendente dell’ultima relazione presentata alcuni giorni fa dal Ministro dell’Interno al Parlamento relativa all’attività svolta e ai risultati conseguiti nel secondo semestre del 2018 dalla Direzione Investigativa Antimafia (DIA) è che per la prima volta viene riservato ampio spazio alla criminalità organizzata nigeriana.
La conferma, insomma, di come sia giunto il momento di “conoscere al meglio il fenomeno e valutarne compiutamente la complessiva capacità criminale”. Che, poi, tra le varie organizzazioni criminali sia diventata finalmente quella oggetto di maggiori attenzioni investigative e inchieste giudiziarie lo si evince, appunto, dallo spazio riservatole nella relazione e dall’attenta analisi, un “focus” di trentasei pagine rispetto alle dieci complessivamente dedicate alla criminalità albanese, cinese, romena, balcanica e sudamericana.
E’ da oltre quindici anni, oltretutto, che grazie al lavoro della nostra intelligence erano stati forniti agli organismi di polizia utili elementi per spunti investigativi nei confronti delle varie associazioni di mutuo soccorso e confraternite di nigeriani (o gruppi cultisti) sospettate di svolgere attività criminali.
E sul tema, anche chi scrive, sulla scorta di qualche esperienze personale diretta e di rapporti di polizia esaminati, aveva esternato, da diversi anni, forti preoccupazioni per una criminalità che andava evolvendo verso forme di una vera e propria “mafia nera” (cfr. Mafia gialla, mafia nera, Ed. Berti, Piacenza, 2006).
E’ doveroso, tuttavia, riconoscere le tante difficoltà incontrate nelle indagini sviluppate nel tempo dalle forze di polizia e che “si sono rivelate tendenzialmente superiori se si considera, ad esempio, quanto possa incidere nella speditezza delle indagini la traduzione di una lingua straniera che si declina attraverso una miriade di dialetti diversi tra loro, non di rado reciprocamente incomprensibili”.
Qualcosa di più sul piano investigativo si è potuto fare negli ultimi anni anche grazie ad “alcuni collaboratori di giustizia nigeriani” e all’applicazione dell’art. 18 del testo unico sull’immigrazione (risale al 1998) che ha consentito il rilascio di permessi di soggiorno di protezione speciale alle donne vittime di tratta e di sfruttamento sessuale.
Interessante, poi, la parte del focus riservata alla “genesi e operatività sul territorio italiano” delle varie confraternite (cults) evolute in vere organizzazioni criminali, con riti magici e di affiliazione, con il ricorso alla violenza fisica per sanzionare le violazioni delle regole del gruppo, la commissione di gravi reati come la tratta, il traffico di stupefacenti.
E su quest’ultima attività, come abbiamo scritto in passato, “la criminalità nigeriana si è ritagliata nel nostro Paese un proprio ‘microcosmo’, tendenzialmente avulso da contrapposizioni con la c.o. autoctona, instaurando una sorta di “convivenza” reciprocamente accettata”.
Sono le regioni del Veneto, della Lombardia, del Piemonte, dell’Emilia Romagna e le province di Caserta e di Palermo, le aree dove gravitano maggiormente i narcotrafficanti nigeriani.
La tecnica di trasporto degli stupefacenti è quella che viene indicata “a pioggia”, con un numero elevato di corrieri (spesso ingoiatori di ovuli contenenti eroina o cocaina) che trasportano, in genere, quantità modeste di droga in modo da limitare le “perdite” – nella eventualità di arresto di un corriere – rispetto al complessivo dato di droga trasportata. Fa riflettere, infine, quella sottolineatura degli analisti della DIA laddove parlano della mafia nigeriana che, per un uso indiscriminato della violenza, avrebbe “addirittura impressionato gli stessi mafiosi italiani”.