Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
P. P. Pasolini, Supplica a mia madre
COSENZA – Una quarta parete supplementare e trasparente, una enorme vetrata, luminosa nella notte: perché nessuno assiste, tutti – piuttosto – spiano e ascoltano, appostati nel buio della platea con tanto di cuffie stereofoniche. Verrebbe subito da pensare a “La conversazione” di Coppola o alle “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck. Ma “Lo psicopompo” di Dario De Luca, che ne è pure regista einterprete insieme ad una splendida Milvia Marigliano – al debutto negli spazi suggestivi dei Bocs Art di Cosenza, prodotto da Scena Verticale per il Festival Primavera dei Teatri – è invece una riflessione sul (non)senso della morte post-contemporanea, rimandando ad un’altra e assai più diversa “guerra fredda”: quella tra una Madre e un Figlio.
Sulla scena, l’interno spoglio di una casa, solo una dormeuse: tangibile allusione (freudiana) alla necessità di una confessione, di un dialogo. Una donna si aggira in quel vuoto: e la tecnica olofonica – davvero encomiabile il lavoro di Hubert Westkemper sul suono – consente al pubblico non solo una percezione assai precisa dello spazio che percorre ed in cui vive ma circoscrive simbolicamente l’imbarazzante reticenza sulla Morte nella modernità nella dimensione del segreto. Lei vuole farla finita una volta per tutte: e in epoca di morte tecnologicamente assistita come l’attuale, le basta una telefonata al numero giusto. Una voce fredda e impersonale ne appunta coscienziosamente i dati, le detta i tempi, le modalità. E il prezzo, ovviamente. La morte arriverà puntuale grazie ad un infallibile protocollo assistito. Ma è qui che l’efficienza organizzativa si incrina: lui, l’infermiere-funzionario che deve “agire”,riconosce subito quella voce: è la proprio la madre, che non vede da anni. Comincia così una resa dei conti, feroce, un gioco grottesco tra Madre e Figlio: la prima a insistere nel suo proposito, l’altro a tentare di dissuaderla. Un conflitto che spesso scorre nascosto, segreto quasi, emergendo improvviso tra le loro parole, in mezzo ai loro discorsi apparentemente comuni e banali, in una atmosfera tesa e amara nella quale aleggiano ancora sia il fantasma di un figlio (e di un fratello) scomparso, sia l’abbandono di un padre e (di un compagno): cinque brevi quadri, scanditi dall’alternanza di luci come tagli e musica. Due solitudini abissali dunque: lei, una donna colta, un’intellettuale ma “aspra dentro”, nessun motivo per vivere ancora, la forza tremenda della perdita di un figlio ad impattare su una esistenza che gira ormai a vuoto. “Non bisogna essere malati terminali per avere il diritto di scegliere”, si ostina a ripetere al Figlio: e la straordinaria versatilità dell’interpretazione di Milvia Marigliano riesce in ogni momento a declinare – oscillando tra sarcasmo e disperazione assoluta, amore materno e cruda logica suicida, ora con sdegnoso distacco, ora con docile mestizia – la trasparente auto-alienazione di una donna che ha scelto di morire: “tu sei la mia fine serena” dice ad un certo punto al Figlio, chiosando definitivamente il senso della sua esistenza e di quell’incontro inatteso. Dall’altra parte lui è solo uno che dispensa la morte, un mero impiegato della fine, senza legami, senza una vera vita e la sua funzione stride paradossalmente anche con il profilo mitologico cui il titolo della pièce rimanda – lo psicopompo appunto, il “traghettatore di anime” – poiché disattendendone il ruolo “neutrale” tradisce in sostanza se stesso. In fondo, si trova a confessare il Figlio, per tutti quegli anni avrebbe voluto solo “la sua mamma”, il suo affetto, le attenzioni tutte spese per l’altro: quello bravo, quello preferito, l’artista. Due solitudini insomma che rimangono in bilico, pare quasi non confliggano definitivamente, anche quando lo scontro sembra farsi più duro, quasi definitivo: e se la Madre paventa l’angoscia di una vecchiaia da inferma è il Figlio a ricordarle che “non si può avere paura di aver paura di morire”. A dominare l’atto unico è un senso assoluto di vuoto – e non a caso stillano le note da “Ambient 1” di Brian Eno – di piattezza che l’asetticità delle nude pareti, il taglio hopperiano di luci e di scenasottolineano chiaramente. Pur con qualche passaggio registico minimalista, lo spettacolo perlustra dignitosamente la dimensione abissale di una guerra intima che, alla fine, sarà senza vinti né vincitori. E il senso di una scelta senza ritorno che poco a poco diventa comune, di due distanze che inesorabilmente si accorciano, pare consistere, allora, in un ultimo e definitivo contatto di mani che affida entrambi all’abisso ma che, forse, li redime.