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Sea Watch 3. Carola Rakete ha rispettato le norme di diritto internazionale

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Il comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, ha dovuto decidere di non rispettare il divieto d’ingresso nel mare territoriale italiano e portare finalmente i migranti soccorsi il 12 giugno scorso verso un porto sicuro per lo sbarco. Pur rispettando tutte le opinioni espresse sul caso e nonostante la si accusi ora di aver violato le leggi dello Stato italiano, a mio giudizio, il comandante, fin dall’inizio delle operazioni di soccorso, non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale e dalle leggi sia italiane, sia del suo Stato di bandiera. Non c’è violazione di legge e ammesso che ci sia per me, opera la causa di giustificazione dello stato di necessità. Come ho più volte scritto e detto in pubblici dibattiti se c’è qualcosa di palesemente illegittimo in tutto questo contesto è proprio il c.d. decreto sicurezza bis.

La Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo, firmata dall’Italia nel 1979 ma entrata in vigore nel 1985, toglie ogni ombra dubbio, per quanto concerne l’obbligo di soccorso della Sea Watch 3, asserendo che: “Tutti i soggetti, pubblici o privati informati di avaria o difficoltà per imbarcazioni o persone in mare, devono intervenire quando ci siano vite in pericolo”. L’obbligo di soccorso in mare è previsto sia dal diritto internazionale consuetudinario, sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sia dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (ratificate dall’Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore superiore alla legge ordinaria ai sensi dell’art. 117 della Costituzione). La stessa Convenzione (se solo la si leggesse!) sancisce che il soccorso si termina solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, che è un porto in cui la loro vita non è più in pericolo e i diritti umani fondamentali sono loro garantiti. E’ chiaro? Mi sembra che almeno questo sia un dato inconfutabile! Voglio rimarcare a gran voce che il porto di sbarco indicato alla Sea-Watch è stato quello di Tripoli, dove nessuno sbarco di migranti è sicuro semplicemente perché lì è in corso una guerra.

La Libia, a oggi, non può essere in alcun modo considerata un porto sicuro. Benissimo ha fatto il comandante ad aver individuato Lampedusa come luogo di sbarco, sia perché costituisce un porto sicuro, sia perché garantiva immediatezza nei soccorsi. A mio giudizio si è attuato un comportamento legittimo, logico e ovvio poiché c’erano tutti i presupposti giuridici e non, di vedersi assegnare lì un luogo di sbarco sicuro. Se vogliamo dirla tutta e di responsabilità si vuole parlare, non escludo per nulla una responsabilità dell’Italia poiché quando la nave è entrata nelle acque territoriali italiane, opera la nostra giurisdizione e quindi andava applicata la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che ricordo l’Italia ha ratificato. Il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, per oltre quindici giorni, già molto provati e con minori a bordo, integra, sempre a mio giudizio, da parte dello Stato italiano una palese violazione dell’art. 3 della Convenzione (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Qualcuno dovrebbe spiegare ai nostri governanti che nelle democrazie vere (ammesso che noi lo siamo ancora) la legge è sottoposta alla Costituzione e al diritto internazionale.


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