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Per l’Italia il D-Day del riscatto internazionale non arriverà più

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Ci sono date, ricorrenze storiche, che lasciano il segno nel destino di una nazione. E a volte si trasformano in coincidenze simboliche che determinano ruoli, alleanze, comuni scelte geopolitiche tra Stati ritenuti amici. E’ il caso dell’Italia: la “Cenerentola d’Europa”.

75 anni fa avveniva lo sbarco alleato in Normandia, il D-Day, che segnò l’inizio della sconfitta nazista e il ritorno dell’Europa alla libertà. Ma già nel luglio del 1943 era avvenuto un altro sbarco non meno importante ai fini dei destini della Seconda guerra mondiale. 160 mila uomini delle forze alleate erano arrivati in Sicilia per colpire le truppe dell’Asse italo-tedesco dal fronte Sud. Ad un anno da quella mossa strategica e dal successivo sbarco ad Anzio con 56 mila uomini, la situazione era però ancora in stallo. Il 6 giugno del 1944 gli Alleati riversarono allora altri 150 mila armati sulle coste francesi del Nord e la guerra prese un’altra piega. E fu Victory Day!

Noi, oggi, però, celebriamo solo lo Sbarco in Normandia, perché lo scacchiere italiano fu militarmente più difficile e meno “eroico” per gli anglo-americani. E poi, se non ci fosse stata la “quinta colonna” dei gruppi partigiani, che dall’interno aprirono un fronte frastagliato, indebolendo la tenuta dell’esercito tedesco, l’Italia non avrebbe potuto neppure fregiarsi del titolo di nazione alleata, equiparata alle vincitrici della guerra.

Eppure è il D-Day che si commemora e se ne propagandano mediaticamente i “fasti militari”. Il nostro paese, invece, viene da anni relegato ad un ruolo secondario, quasi equiparato ad una nazione belligerante, non degna di far parte del novero di quelle che contribuirono alla vittoria. Siamo diventati un ospite “non gradito”!

Basta scorrere l’elenco dei capi di stato e di governo presenti il 5 giugno a Portsmouth, in Gran Bretagna, da dove nel ’44 partì la spedizione navale, per accorgersi che la memoria storica è stata stravolta e che il panorama geopolitico è cambiato significativamente: la regina Elisabetta II e la premier dimissionaria Theresa May, Donald Trump, Emmanuel Macron, i primi ministri di Australia, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Nuova Zelanda, Polonia e Slovacchia. E con loro c’era anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, unendo così i vincitori al grande sconfitto. In una dichiarazione comune i 16 hanno ricordato inoltre che: “Negli ultimi 75 anni le nostre nazioni si sono levate per la pace in Europa e, globalmente, per la democrazia, la tolleranza e lo stato di diritto. Ci impegniamo nuovamente per questi valori perché sostengono la stabilità e la prosperità delle nostre nazioni e i nostri popoli”.

Dunque, l’Italia non farebbe più parte formalmente del novero delle nazioni vincitrici, mentre la sconfitta Germania ne ha tutta la titolarità. Ci si dimentica che proprio per mantenere e sviluppare “la pace in Europa e, globalmente, per la democrazia, la tolleranza e lo stato di diritto”, il nostro fu tra i 6 paesi fondatori della Comunità Europea nel 1957?

Oggi, ancor più, la Storia degli Stati è frutto di escamotage e furberie geopolitiche. Si piega ai voleri e alle scelte determinanti, spesso oscure, delle lobby finanziarie.

Così si spiega insieme al rapido declino economico, industriale e politico del nostro paese, l’emarginazione dai consessi mondiali, la scarsa incisività nelle decisioni fondamentali per il nostro futuro, per le nomine a livello internazionale. E i maggiori paesi (USA, Gran Bretagna, Francia, Germania), che solo pochi anni fa ci consideravano alla loro stregua nel G/7, ora ci relegano ad alleati questuanti, se non addirittura a “giullari di corte”.

Certo, non è da oggi che questo processo di “Disistima” abbia avuto inizio: tutto cominciò con le “stranezze comportamentali” e le scelte di politica estera, un po’ fuori dai rituali diplomatici, dei governi Berlusconi, poi proseguiti con gli altri di centrosinistra, per finire con il disastro generalizzato di questo governo giallo-verde, euroscettico e supponente.

Gli sgarbi istituzionali con i partner, l’assenza di una visione europeista convinta, che invece ha fatto vincere le forze riformatrici alle recenti elezioni, la mancanza di una politica industriale che ponesse in primo piano “l’Esprit Républicain”, come orgogliosamente ripetono i presidenti francesi: queste le nostre pecche. Lo Stato francese con la golden share siede nei CdA delle più importanti imprese e ne determina alleanze e strategie, in barba alle regole di libero mercato e comunitarie, una personalissima concezione neoliberista, miscelata col capitalismo di stato; così come “la mano pubblica” in Germania è fortemente presente in banche, assicurazioni e nel settore automobilistico, tramite i Lander e i sindacati.

L’elenco di questo deragliamento del treno della “modernizzazione” industriale e finanziaria, che passa dalle regioni ricche del Nord e avrebbe dovuto portarci anche con la TAV nel cuore pulsante dell’Europa che conta, è lungo ed emblematico:

– Lo stallo da gennaio nella fusione tra la Fincantieri e i francesi dei Chantiers de l’Atlantique di Saint Nazaire (bloccata dall’istruttoria dell’Antitrust europea, richiesta da Francia e Germania, per incompatibilità alle norme sulla concorrenza). Sarebbe stato il più grande polo di cantieri navali civili e militari al mondo!

– Il fallimento della grande alleanza automobilistica tra FCA e Renault-Nissan-Mitsubishi. Sarebbe stato il secondo o terzo colosso mondiale dell’auto!

– L’acquisizione da parte delle grandi finanziarie francesi “del lusso” di quasi tutte le nostre principali “Maison” della moda. La “Fashion made in Italy” oramai parla solo francese, con qualche inflessione araba. Idem per la grande distribuzione alimentare, dai supermarket, agli ipermercati, ai centri commerciali. Per non parlare del vasto settore alimentaristico, con il colosso lattiero-caseario mondiale, la francese Lactalis, che ormai ha superato oltre il 30% della produzione italiana con l’acquisto di Parmalat, Galbani, Vallelata, Invernizzi, Cademartori, Locatelli e, da questo maggio, anche della Nuova Castelli, il primo esportatore di parmigiano reggiano con 150 mila forme all’anno.

– La situazione di “purgatorio” sulle trattative per ottenere il pacchetto di maggioranza della tedesca Commerzbank da parte di Unicredit. Ai tedeschi della Deutsche Bank e agli altri istituti di banca-assicurazione francesi-belgi ed olandesi una simile prospettiva ha già fatto venire l’orticaria. Ma intanto la storica BNL è passata al gruppo transalpino BNP/Paribas da anni, così come il Crédit Agricole si è impossessata di alcune redditizie Casse di risparmio. E gli intrecci tra le maggiori società assicurative francesi con la nostra Generali?

– Un declino economico e sociale (le ricadute sono disastrose sia a livello umano sia per gli aggravi assistenziali e previdenziali, casse integrazioni, prepensionamenti, sussidi alla disoccupazione, emigrazione), che purtroppo data dal periodo delle privatizzazioni, imposte ad inizi anni Novanta dalla Commissione europea per abbattere il nostro Debito pubblico, ma che si è rivelato un flop dei governi e una regalia a potenti gruppi esteri dei “gioielli di famiglia”. Mentre il Debito pubblico anziché diminuire, è aumentato, dal 102% al 133% sul PIL, l’Italia si è privata di strategici settori come acciaierie e chimica fine, oltre a quelli ad alta tecnologia, tra i più avanzati al mondo, come le telecomunicazioni, e ha ridotto in fin di vita la “fidanzata dei cieli”: quell’Alitalia che faceva gola alle maggiori compagnie mondiali, tra cui l’Air France.

Una deindustrializzazione che si evidenzia inoltre con il blocco degli stabilimenti dell’americana Whirlpool, dell’ILVA, di proprietà dei franco-indiani Arcelor-Mittel, e della storica Knorr, dell’americana Unilever, che anni fa aveva già trasferito fuori dai confini il glorioso marchio Algida, leader mondiale dei gelati confezionati. Imprese che capitalizzano centinaia di miliardi di euro, con giri d’affari per migliaia di miliardi. Ma “la mano pubblica”, ben presente nei maggiori paesi capitalistici occidentali, da noi è completamente assente, salvo quando si presentano gli stati di crisi e si deve intervenire per attenuare i danni delle disoccupazioni con dispendiose politiche assistenziali.

L’unico fronte ancora aperto tra Italia e Francia resta quello energetico: uno scontro senza esclusione di colpi, che riporta al “Grande gioco” spionistico di inizio Novecento per il predominio del Medio Oriente e dei paesi del Golfo, ricchi di petrolio, tra la stessa Francia e la Gran Bretagna. Oggi sono la nostra ENI e la francese Total che se le danno di santa ragione, per la Libia e l’aerea Subsahariana.

Insomma, il principale avversario del nostro paese è proprio la Francia di Macron, espressione dei circoli finanziari ed energetici d’oltralpe. Nella strategia del governo “più europeista” dell’Unione, in realtà si cela la volontà di ridurre il peso dell’Italia oggi secondo paese manifatturiero ed esportatore, dopo la Germania, imponendo agli “indebitati” italiani anche le procedure di infrazioni comunitarie e soffiando sul fuoco dello Spread. Eppure la Francia, che da anni supera il 3% del rapporto Deficit/PIL e ormai naviga attorno al 100% del rapporto Debito/PIL, viene costantemente perdonata dai severi “sacerdoti” dei bilanci pubblici a Bruxelles!

L’Italia così si trova tra l’incudine e il martello come non mai dal Dopoguerra. Da una parte gli pseudo-amici “Sovranisti” dell’Est Europa, che mirano ad ottenere più fondi strutturali UE e a versare meno contributi a Bruxelles, ma che non perdono occasione per castigarci sulle politiche di rientro dal Debito e dal Deficit. Dall’altra, gli storici alleati, come Francia e Germania che, pur di non perdere i privilegi ottenuti con l’Euro e con la Diarchia nella gestione della politica comunitaria, fanno di tutto affinchè l’Italia sprofondi nel baratro, come in una “lenta eutanasia”, procurata dai suoi stessi governanti e da una classe dirigente provinciale ed insipiente.


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