“A mezzogiorno in punto, con l’ansia di far tardi, entravo all’Hotel Plaza, un mitico albergo di lusso, austero, sontuoso, animatissimo, proprio al centro di Via del Corso, di fronte alla chiesa dei SS. Ambrogio e Carlo. La bussola girevole di cristalli liberty smerigliati mi aveva depositato col suo sfavillio al centro della hall.
Ciò che stavo vivendo era già a suo modo un film, con i personaggi che si spostavano sulla scena per incontrarsi nel punto focale predestinato. E uno di loro era il più famoso regista della Terra.
«Ho un appuntamento con Fellini», scandii a uno dei sussiegosi rondoni, impettito dietro il banco della reception. Era lui la persona giusta? Avevo scelto bene? Non si diede pena di replicare, alzò un telefono nero e lustro come la sua marsina, e sussurrò prudentemente qualcosa di vago:
«Adesso arrivano», mi istruì poi sollevando impercettibilmente lo sguardo verso la porta vetrata che separava l’atrio dalla immensa lobby sovraccarica di tappeti e arredi rilucenti, e suggerendomi indirettamente, con quel minimo accenno, da che parte dovessi aspettarmi l’apparizione.
Ampia, curvata, impreziosita dalla guida rossa fiammante, scendeva dall’alto una scalea marmorea, e in capo alla voluta del mancorrente un leone gigantesco si protendeva verso il vestibolo con passo maestoso. Aveva la criniera irsuta, le fauci dischiuse a scoraggiare l’incauto visitatore; la sua sola presenza, la sua mole, costituivano la minaccia, a guardia di un passaggio evidentemente interdetto, o concesso solo a pochi. Scala e animale, del resto, mi erano familiari, per averli già incontrati, fedelmente riprodotti, in Otto e mezzo.
Poi, improvviso, un sorriso lusingatore, una bocca vermiglia che formava le parole con invitante e avvolgente sinuosità:
«Ma come è giovane, proprio un ragazzo! E’ qui per il maestro, vero? Io sono Norma Giacchero, la segretaria di edizione.»
Mi aveva teso la mano, la camicetta di seta scarlatta, sbottonata a misura, palpitava sui seni che non volevano saperne di quel docile schermo; il sorriso non svaniva, accendendo anzi tutto il viso, gli occhi scuri stellati, sfidanti ma languidi, da sulamita. Mentre parlava, una punta di lingua umettava saettando le labbra, faceva capolino sfrontata e promettente.
«Venga, il maestro la vedrà subito. Lei è di Bologna, no?» Lo diceva come se fosse un lasciapassare.
«Studio a Bologna, – l’avevo corretta con pedanteria, non conoscendo ancora le regole di un mondo in cui le domande sono poste, così, con garbo distratto, senza pretendere risposta. «Ma che bravo! Non è mica facile trovare ragazzi con la voglia di studiare; alla sua età magari uno, ovvia!, ha più la testa a divertirsi.»
Parlava con una leggera inflessione toscana e mi precedeva di un mezzo passo per dare la possibilità al suo corpo di sagomare mollemente l’aria intorno. Il sorriso si era trasformato a vista in una risatella assolutoria: se lo avessi fatto, di divertirmi invece che studiare, non avrebbe saputo darmi torto.
Norma era modellata come un’anfora, nello stile delle donne di Barbara, di Boccasile, di Walter Molino: caviglie strette, e sedere bombato. Non alta ma armoniosamente proporzionata, la vera donna italiana. Federico l’ha sempre ritratta allo stesso modo nelle sue innumerevoli caricature, muso da gatta, curve feline, e un incedere dondolante, da incantatrice.
Il mondo di Fellini mi si è presentato annunciato da lei. Per la prima volta mi sono trovato davanti a una sua creatura in carne e ossa e non più ai fantasmi argentati dello schermo da rimpolpare instancabilmente con l’immaginazione”.
Così scrivevo nel romanzo verità intitolato FEDERICO F. per raccontare il mio ingresso nel mondo felliniano.Norma era stata una anticipazione, una specie di araldo, di messaggera dell’Olimpo. L’avrei capito più tardi.
Norma Giacchero aveva fatto la sua comparsa sul set al tempo di Giulietta degli spiriti. Con Fellini si erano conosciuti nei corridoi della RAI ed era scoccato un colpo di fulmine; sarebbe rimasta la sua più stabile compagna di lavoro fino all’ultimo ciak, in una durevole, immutabile, affettuosa amicizia. Era la sua complice allegra e indispensabile nel gestire con intuito infallibile l’armonia della troupe e persino il traffico delle new entry, un carosello non da poco; ma tracciare una mappa delle liaison del regista, film dopo film, sarebbe un’inutile litania, un esercizio di pura nomenclatura che nulla aggiungerebbe alla comprensione dell’artista. Stando al suo fianco ho assistito a numerose epifanie, transiti a volte leggeri, simili a rilucenti meteore, altri più contorti e ingarbugliati.
Sono centinaia i disegni che Federico ha dedicato a Norma, da lui affettuosamente ribattezzata Normicchia; e non pochi bozzetti della sua fornitissima collezione privata li ho acquisiti quando dirigevo la Fondazione Fellini, e sono tra i più belli in circolazione. In uno, eseguito su un tovagliolo, ci sono anche io in veste di agnello, che fuggo inseguito dai suoi gioiosi artigli di tigrotta. Per l’eccitazione che sollevava tra i maschi dell’entourage, e la gelosia che inevitabilmente animava nelle femmine, Norma era stata rinominata da Fellini, con disinvolta goliardia, “la segretaria di erezione”, con l’aggiunta di una spiritosa postilla che le attribuiva un incomparabile titolo accademico: “laureata alla Sorconne”.
Sfogliando il LIBRO DEI SOGNI, nell’affollamento dei messaggi onirici si accendono alcuni palpitanti trasalimenti sessuali legati a Norma. La sua prima apparizione risale al 23 novembre 1966 quando Federico sogna di fare l’amore con Norma e con Anita insieme (abbiamo già incontrato il sogno nella voce della Ekberg) e prova la soddisfazione di vedere finalmente l’occhio della vichinga “appannarsi nell’ orgasmo”. La segretaria di edizione torna in scena ingelosita della bionda Lilly che sul set abbraccia il regista “con le sue tettone dritte e puntute”. Norma “nasconde la gelosia sforzandosi di sorridere, ma più tardi mi aggredisce e sfoga il suo malumore sfottendomi per il foruncolo (sulla guancia) che ora è diventato grosso come un fagiolone, sta sul punto di scoppiare (sottolineato)…” E mi sembra che l’allusione non richieda altre spiegazioni. Norma si ripresenta ancora come una “gatta ingorda”. Ricompare in saletta di doppiaggio seduta compostamente e intenta a lavorare a maglia: “Desidero fare l’amore con lei”. Scrive il regista. Cercano di raggiungere la toilette ma la porta è troppo stretta per entrare. Un’altra volta Federico è a letto con lei quando arriva inaspettato il marito che, molto triste, raccoglie in terra una corona di spilli intrecciati. Ancora Norma gatto, Norma con la testa mozzata in compagnia della Lea, a sua volta decollata. Norma che civetta con Ingmar Bergman. Norma “contadina, molto più rotonda, con un seno enorme e sulla testa un cestello pieno zeppo di uova freschissime”. Norma che è morta, nel marzo dell’80: tentando di saltare da un sottomarino all’altro scivola e batte violentemente la testa. “Piango disperato quando qualcuno mi dà la triste notizia, Sono solo sulle rive della laguna triste e deserta”.
Ma il sogno più famoso e ricco di simboli, è del 23 dicembre 1981, intitolato “Il culo della segretezza”, in cui è palese l’assonanza della parola segretezza con ‘segretaria’ (e infatti le chiappe voluttuose appartengono a lei, inconfondibili). Federico si trova in un lettone matrimoniale con Gianni Agnelli, in pigiama, e in mezzo a loro due c’è Normicchia che gli volta le spalle e fa la civetta con l’avvocato. Trascorrono insieme tutta la notte e “all’alba Norma seminuda, forse completamente nuda, si dirige con tutti gli altri ospiti verso il parco che si scorge al di là della vetrata; si volta prima di scomparire in un boschetto. Agnelli guarda le nudità procaci e dice da vitellone: – Ostia che culo! – Mi congratulo con lui per lo spirito da studente che conserva, però guardandolo meglio mi appare invecchiato, rincoglionito”.
Norma, la decana dei felliniani, si è spenta a Bologna nella notte tra mercoledì 2 e giovedì 3 giugno 2010, quindici minuti dopo mezzanotte. Si è congedata incredibilmente in mezzo ai suoi compagni di avventura cinematografica, tra i suoi ricordi, sopraffatta da un malore appena tornata in albergo e in attesa del treno che l’avrebbe riportata a Roma. Aveva 86 anni e fine migliore non avrebbe potuto toccarle in sorte.
Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, aveva invitato al Mambo (il nuovo Museo d’Arte Moderna della città), alcuni membri della tribù felliniana, nell’ambito delle iniziative organizzate per affiancare la mostra e la retrospettiva dedicata a Federico Fellini. Roberto Chiesi conducendo l’incontro e notando il sentimento di affetto sincero, di comunella e di assoluta confidenza che circolava tra noi, s’era sentito ispirato a parlare della “famiglia di Fellini”, cogliendo nel segno. Soprattutto, io credo, per la presenza dolcemente matriarcale, da vera azdora – come si direbbe in Romagna – di Norma, che era stata a fianco di Federico dal 1965 all’ultimo film, La voce della Luna; tre decenni attraversati senza stanchezza, e con l’immutabile entusiasmo che continuava a irradiare come se il tempo non fosse trascorso. Pronta a ricominciare l’intera sarabanda il giorno dopo, se solo fosse stato possibile.
In circa due ore di conversazione ciascuno aveva rievocato un episodio, un aneddoto spassoso, un incidente significativo, testimoniando un sentimento inestinguibile e stando ben attento a escludere i toni della mestizia, che poco graditi sarebbero risultati al Grande Riminese. Il Mambo s’era ripopolato di facce e di frammenti accesi di verità sul “cinema come vita” che Federico ha rappresentato in misura straripante e che, scomparso lui, ha finito gradualmente di esistere.
Norma, come controllando la perfetta esecuzione di una sceneggiatura, aveva tenuto banco nella sua forma migliore, scoppiettante e briosa, distribuendo buonumore con il suo salace spirito toscano; e si riportava l’illusione di vederla piroettare in quei suoi sensuali passi da femmina danzante in cui Federico la ritraeva nei disegni. Recava su di sé l’euforia, l’effervescenza tipica dei set di Fellini, quel clima inimitabile che lo stesso regista aveva raccontato insuperabilmente nella sequenza finale di Intervista quando, per sfuggire all’improvviso temporale, tutta la troupe si rifugia sotto una tenda rimediata con teli di plastica trasparente e cantinelle di legno, a far baldoria come una scolaresca eccitata in attesa dell’attacco degli indiani. O forse anche la misteriosa sequenza che chiude Otto e Mezzo, quando tutti i personaggi del film scendono dalle scale della rampa di lancio (gigantesca costruzione scenografica per un improbabile film di fantascienza che non sarebbe mai stato girato) e iniziano a sfilare leggeri e sorridenti in un allegro carosello, seguendo le note dell’immortale marcetta di Nino Rota. Una sorta di girotondo felice, di conciliazione, di pacificazione in un mondo superiore.
Norma dall’alto dei suoi anni portati con lo spirito di una ragazzina golosa di vita, incarnava prodigiosamente quell’atmosfera e la restituiva a tutti noi ogni volta che la combinazione ci raccoglieva insieme. Era la sua vitalità indomabile che non si arrendeva, e ancora la spingeva a vagheggiare nuovi progetti, un film da realizzare, perché no, su un copione che voleva dirigere lei stessa.
La segretaria di edizione di una filmografia leggendaria, aveva riposto penna e bollettini di ripresa, e aveva scelto di congedarsi da tutti noi con l’immagine sorridente di sempre; grata agli organizzatori di Bologna per l’opportunità che le davano di rivivere in un caleidoscopio riverberante le stagioni più strepitose della sua esistenza. Al punto che sopraffatta dall’allegro turbinio si era spinta ad affermare commossa: “E’ stato tutto così perfetto che adesso potrei anche andarmene senza alcun rimpianto”. E Dio l’ha esaudita.