Ha preferito morire a 17 anni piuttosto che vivere la sua vita dopo uno stupro. Lei si chiama Noa Pothoven ed è una ragazza olandese di Arnhem che domenica scorsa ha deciso di morire dopo anni di battaglie per combattere la sua malattia. Noa, nel suo ultimo messaggio sui social, aveva scritto che “Amore è lasciar andare” e aveva chiesto ai suoi follower di non cercare di farle cambiare idea perché non era una “scelta impulsiva, ma a lungo meditata”. I giornali hanno scritto di lei che soffriva di depressione, anoressia e Disturbo da stress post-traumatico (PTSD) da anni e che la sua vita le era diventata insopportabile, soffermandosi però in maniera dettagliata più sulla sua scelta e di quanto sia legittima o meno, e oggi anche sul fatto che in realtà non sia stata concessa ma che si sia lasciata morire a casa, quasi nulla, se non di sfuggita, si sta dicendo sulla causa di questa sua decisione di morte: ovvero le due aggressioni sessuali e lo stupro subito da Noa a 14 anni, un trauma con conseguenti insopportabili sofferenze, che tra ieri e oggi sono state citate solo distrattamente da tutte le testate, nessuna esclusa.
Noa scriveva: “Ho smesso di mangiare e bere per un po’ ora, e dopo molte discussioni e valutazioni, è stato deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Una ragazza che aveva affrontato la situazione combattendo in tutti i modi per avere una vita degna di essere vissuta e che alla fine si sentiva “prosciugata”, stanca di tutto quel massacrante dolore. “Ho ricevuto cure presso GGZ per anni. Cliniche, part-time, trattamento ambulatoriale, ricoveri ospedalieri e attualmente sto seguendo Electro Convulsion Therapy, un trattamento per la depressione grave, terapia e farmaco resistente. Non voglio semplicemente arrendermi”, parole di una ragazza che non si dava per vinta facilmente e che alla fine però è andata dritto al punto: meglio morire che vivere così. Lei che ha deciso come e quando morire, dato che le era stata tolta la scelta di come vivere, e che ha lasciato ai posteri il libro della sua breve vita dal titolo emblematico “Vinci o impara – Vivere con PTSD in giovane età: depressione, anoressia e autolesionismo”.
Un testamento in cui spiega chiaramente come prima dello stupro fosse una ragazzina normale, senza disturbi, almeno “Fino a quando sono stata aggredita, due volte, e fino a quando non sono stata stuprata. (…) Dopo di ciò non è rimasto più nulla della mia vita”. Ma allora invece di disquisire se sia lecito o meno sottoporsi a eutanasia come libera scelta, vogliamo chiederci cosa significa un Disturbo stress post-traumatico e quali sono le conseguenze di uno stupro per una donna che l’ha subito? Ve lo siete mai chiesti voi? Lo sapete?
Gli effetti dello stupro hanno conseguenze spesso indelebili nella mente e nel corpo di una donna. Già nel 1974 Burgess e Holstrom al Boston City Hospital (tratto da www.stateofmind.it), hanno descrivevano la Sindrome da trauma di stupro (Rape trauma sindrome) con due fasi: una immediata di disorganizzazione acuta e una di riconoscimento che può durare anche molti anni, descrivendo reazioni di incredulità, shock, paura, vergogna, senso di colpa, umiliazione, rabbia, isolamento, lutto e perdita di controllo, ma anche reazioni somatiche come tensione muscolo-scheletrica, irritabilità gastro-intestinale, disturbi genito-urinari, nausea, mal di stomaco e dolore vaginale, insieme a mal di testa, insonnia, disturbi del sonno, fino alla depressione, tentativi di suicidio, sviluppo di dipendenza da droghe, alcol, disfunzioni sessuali gravi come apatia sessuale, vaginismo cronico e dispareunia, con un un terzo delle sopravvissute che sviluppano la sindrome post-traumatica da stress e che hanno il 13% di probabilità in più di tentare il suicidio.
Per le donne che hanno subito una violenza maschile nell’infanzia o nell’adolescente è ancora peggio, e per Noa che è stata aggredita precisamente quando aveva 11 e 12 anni a “feste per bambini” e poi è stata violentata da due uomini all’età di 14 anni, il trauma è stato catastrofico, mortale e non in senso metaforico ma reale. L’abuso sessuale sui bambini e le bambine viene definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO Consultation on Child Abuse Prevention, 1999) come “il coinvolgimento di un minore in attività sessuali (…) per le quali non sono preparati dal punto di vista dello sviluppo”, e dichiara che almeno 1 donna su 3 sotto i cinquant’anni ha subito un abuso sessuale durante l’infanzia o l’adolescenza: un trauma che causa deficit cronici nello sviluppo fisiologico e psicologico complessi e spesso devastanti in quanto diventa un imprinting nello sviluppo dei bambini abusati.
Il Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) conseguente ad un trauma da abuso o violenza sessuale, quello di cui soffriva Noa, ha conseguenze importanti per il cervello umano che subisce vere e proprie modifiche che agiscono e si perpetuano nel tempo: conseguenze che sono paragonabili all’esperienza dei veterani di guerra che tornati a casa non riescono ad avere più una vita nomale in quanto manifestano stress cronico, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, incubi, paura costante. Disturbi della personalità correlati al trauma per stupro che vanno dal Bordeline, a quello Traumatico da stress complesso, fino a condizioni invalidanti come la Depersonalizzazione e la Derealizzazione o al Disturbo dissociativo dell’identità (DID). Effetti così gravi che spiegano come spesso il cervello rimuova completamente l’esperienza traumatica dello stupro con una “amnesia” post traumatica per difendersi da una destabilizzazione troppo profonda e continuare a sopravvivere, soprattutto se la violenza avviene nell’infanzia, rimozione che però non cancella la memoria del corpo, una memoria “somatica” che attraverso percezioni esterne, tra cui odori, sapori o suoni, ci ricordano e ci riportano al trauma e al dolore vissuto.
Un messaggio, quello dell’eutanasia di Noa, che non va dimenticato e che sta nel non sottovalutare gli effetti che la violenza maschile ha su tutte le donne, una violenza che va raccontata per non minimizzare un crimine troppo spesso socialmente normalizzato.