Mediaset veste la maglia olandese, forse per motivi di mera utilità societaria. Il trasferimento della sede legale ad Amsterdam è stata motivata (il capitale ha la sua faccia tosta) con le differenze rispetto al diritto italiano in tema di “scalettature” azionarie. In termini pratici, dopo cinque anni i voti lassù si possono moltiplicare per tre. Insomma, la proprietà berlusconiana si mette al riparo da potenziali scalate – è ancora aperta la ferita dell’offensiva di Vivendi- e si attrezza a mettersi in trincea contro le folate dei nuovi potenti: gli oligarchi della rete.
L’operazione vuole avere un respiro sovranazionale. Infatti, l’aggregazione Media for Europe controllerà anche il 100% della consorella spagnola e le sarà conferita il 9,6% della stazione tedesca ProSiebenSat1. Bolloré per l’intanto rimane al palo. Per le aziende di Cologno, ha affermato Pier Silvio Berlusconi, non cambia nulla: le tasse saranno sempre pagate in Italia e pure qui rimarranno coloro che lavorano nelle reti e nelle testate.
Possibile che l’antica corazzata, la metà del duopolio che ha concentrato risorse e frequenze per anni influenzando a fondo l’immaginario e i consumi delle persone, ceda così semplicemente il massimo del potere, vale a dire quello simbolico della nazionalità, per una questione azionaria? Importante, magari, ma ben poco rispetto alle ambizioni di leader dell’industria audiovisiva coltivate ed esibite dal Cavaliere di Arcore. Ora, finiti i fasti del passato ed obiettivamente concluso il lussureggiante periodo dei conflitti di interesse, Mediaset è costretta ad adottare uno stile ragionieristico, lontano dalle luci della ribalta.
E’ proprio vero, allora, che il caso Fininvest è stato un unicum, costituito da una miscela indivisibile di comunicazione e politica. Scemata quest’ultima, essendo Forza Italia in difficoltà e scarsamente utilizzabile in qualsiasi futura alchimia, pure la faccia mediatica della medaglia è entrata in crisi. Noi, teledipendenti, da un bel po’ abbiamo notato la curva discendente, riassumibile in una terribile verità: l’offerta di programmi si è indebolita e lo share del giorno medio è in caduta da parecchi anni. Con rispetto, ovviamente, per coloro che vi operano incolpevoli, la funzione di Mediaset si è decisamente incrinata. Regge soprattutto nell’ascolto, in verità, grazie ai programmi di Maria De Filippi, che è pur sempre – però- una società esterna. Nessuna gioia nel fare simili considerazioni, cui non sfugge neppure la Rai, sorretta dalla fiction e dalla tenace qualità della terza rete (che ci ha regalato un gioiello come la serata sulla musica dello scorso sabato condotta dal maestro Ezio Bosso).
Torniamo a Mediaset. Andate maluccio le avventure con la pay-tv o appena abbozzata l’esperienza della piattaforma Infinity, la scelta appena decisa sembra un netto ritorno al passato. L’usato sicuro della vecchia televisione generalista appare, probabilmente, l’unica salvezza.
Una strategia difensiva, che –data la consumata scaltrezza della casa berlusconiana- fa venire un dubbio. Si tratta di un consolidamento provvisorio per preparare una futura vendita dei gioielli di famiglia remunerativa e in grande stile? Per l’intanto diluire le perdite e le difficoltà, ma domani è un altro giorno.
Non c’è neppure molto di nuovo sotto il sole. L’operazione assomiglia ad un progetto simile che si chiamava “Traviata”. Eravamo negli anni novanta, quando la televisione commerciale e la raccolta pubblicitaria stavano al massimo dello splendore. Nel frattempo la vita ha scritto un romanzo.