MILANO – Sono quasi un milione e mezzo le partite Iva “attive” in Italia che fatturano zero euro. “Non operative” le definisce il Dipartimento delle Finanze che ha fornito i dati a Redattore sociale. La tabella messa a disposizione dall’ufficio statistica del Mef parla di 1.383.859 di partite Iva non movimentate. Più di una ogni otto rispetto a quelle complessivamente aperte nel Paese. Sono infatti 8.254.348 le partite Iva attive sulle 20 regioni, comprendendo in questa cifra persone fisiche, regimi agevolati, società di persone, società di capitali e gli enti non commerciali.
I dati si basano sulle dichiarazioni dei redditi 2017 (anno d’imposta 2016), l’ultimo per il quale il Ministero dispone delle dichiarazioni per tutte le nature giuridiche dei contribuenti. Numeri che mostrano divergenze territoriali importanti. Il record delle partite Iva a zero euro spetta al Lazio, con 207.519 su poco più di 900 mila attive. Una ogni 4,5. Davanti a Sicilia (184 mila), Campania (161 mila) e Puglia (157 mila) che si attestano su proporzioni simili a quelle laziali. Mentre, al contrario, in Lombardia su un milione e 226 mila partite Iva complessive, quelle “non operative” sono 83.260. Una ogni 15. Una dinamica che si verifica simile, anche se in inferiore nelle proporzioni, in Piemonte, Liguria e Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Trentino e infine, a metà classifica, in Veneto e Toscana.
I numeri non fotografano l’intera realtà
Fra quelle 1,4 milioni di partite Iva che nel 2017 hanno dichiarato zero euro ci sono le situazioni lavorativi più disparate. C’è chi, come il signor R.D., spiega di lavorare in un importante ufficio amministrativo europeo all’estero, con un rapporto di lavoro equiparabile a quello dipendente, ma di avere anche la partita Iva aperta sin dagli anni ’80. La utilizza per collaborazioni esterne o consulenze in Italia. Dalle 3 alle 6 fatture l’anno, dice. Ma negli ultimi anni l’attività economica si è contratta – spiega – e nel 2018, ad esempio, l’uomo ha realizzato due soli lavori attraverso fatturazione. Nei primi sei mesi del 2019 nemmeno uno.
Ci sono anche altri casi: “Partiamo dal presupposto che la partita Iva in quanto tale non ha nessun tipo di indennizzo come è la Naspi (disoccupazione da lavoro dipendente , NdR) o la Dis-Coll (disoccupazione per i collaboratori, NdR)”, dice Daniel Zanda della segreteria nazionale Felsa, la categoria Cisl che rappresenta i lavoratori somministrati, autonomi e atipici. “Il lavoratore autonomo – spiega Zanda – in quanto tale non ha nessun tipo di sussidio per la disoccupazione e quindi c’è chi, pur non lavorando, lascia la partita Iva aperta perché dal punto di vista amministrativo non gli cambia nulla. Cerca in questo modo di non precludersi delle possibilità future”.
Per Daniel Zanda, che è anche segretario generale della sigla in Lombardia, “il lavoro autonomo non è più ascrivibile a una professionalità definita e specifica, come poteva essere trent’anni fa il classico esempio dell’artigiano”.“Oggi la partita Iva è legata a una condizione individuale, non certo alla professionalità”“Dal nostro osservatorio possiamo dire che sicuramente nei dati più recenti rispetto a quelli del 2016, vedremo anche gli effetti del Decreto Dignità sul mondo del lavoro autonomo: limitando l’utilizzo dei contratti a termine, alcuni lavoratori saranno stabilizzati, altri saranno sostituiti, mentre altri ancora dovranno aprire la partita Iva invece che accedere al contratto a tempo determinato, magari combinando l’apertura con l’introduzione della flat tax. Accadrà sopratutto nel settore dei servizi e del terziario, più che nell’industria”.
Anche per l’Istat non è facile inquadrare pienamente il fenomeno delle partite Iva a zero euro. Che cos’è una persona che ha fatturato zero? Un disoccupato o qualcosa d’altro? Dall’ufficio che si occupa di metodologia all’Istituto nazionale di statistica, inizialmente spiegano che nello stimare il tasso di disoccupazione – cioè le persone in cerca di lavoro fratto la forza lavoro complessiva – una partita Iva aperta, ma non movimentata, si trova comunque al denominatore della frazione. La situazione in realtà è più fluida.
Spiega Federica Pintaldi, ricercatrice Istat che si occupa delle note trimestrali sulle tendenze dell’occupazione, come molto dipenda “da come viene condotta l’intervista sul campione e da quali sono le risposte nella settimana di riferimento”. Chi è in fase di ricerca attiva di lavoro o è disponibile a lavorare viene considerato disoccupato. Chi non è alla ricerca viene considerato inattivo. Ma oltre all’incognita statistica c’è il problema di riattivare al lavoro chi magari per uno o due anni non ha fatturato. “Abbiamo un sistema di politiche attive frastagliato sui livelli regionali – dice il sindacalista di Felsa – e non c’è una vera politica attiva a livello nazionale, ma solo diversi sistemi regionali di sostegno alla ricollocazione, ciascuno in base alle proprie condizionalità che possono non possono essere estese a varie categorie di persone”.
Ad esempio i fondi inter-professionali di categoria che erogano formazione – spiega Zanda – ma dove ciascuno ha dei propri requisiti di accesso e dei propri destinatari di riferimento. Oppure il fondo di formazione delle agenzie per il lavoro, come “Formatemp” in Lombardia. Che offre corsi professionali non solo per i disoccupati ma anche per candidati a una missione lavorativa ritenuti idonei, inclusi occupati part-time o lavoratori autonomi che non fatturano o che si trovano in una fase di contrazione. Alla domanda “esistono quindi politiche attive per quei soggetti che, fra le 1,4 milioni di partite Iva a zero euro stimante dal Mef, sono realmente senza lavoro?”, la risposta che dà il sindacalista è: “Bisogna essere molto bravi a trovarle”. (Francesco Floris)