Scrivo per veicolare.
Scrivo per sublimare.
Scrivo per curare.
Scrivo per curarmi.
Che con “Mal di fuoco” noi si sia di fronte a un libro è il primo grande dubbio di questo viaggio.
La forma è quella, così come la consistenza tattile. Il contenuto però lo assimila molto più verosimilmente a un manuale d’istruzioni di antropologia galattica o, più modestamente, a un collana enciclopedica completa il cui “focus” (giustappunto) è la narrazione delle cose già successe nel passato e intimamente interconnesse a quelle già successe nel futuro che però non sublimano nel presente ma nel grande assente: il sole, che al di là di ogni più rosea previsione non ha retto la successione delle epoche e si è spento.
Lo chiameremo libro per convenzione. L’Autore apprezzerà questa semplificazione, non ci riterrà superficiali ma pratici.
Un libro che è per metà un metalibro, e che si prende la responsabilità di metterci a parte di nuovi salmi vaticinanti, e non responsoriali, con delle impennate di arguzia che strizzano l’occhio a virtuosistiche indagini siderali, declinate, a volte, a complottistiche congetture.
I nuovi salmi a cui si allude sono una serie numerata di frammenti dal grande valore archeologico, salvatisi, ma non del tutto, dal “Grande reset”, ossia dalla cancellazione di tutto il patrimonio intellettuale e artistico dell’umanità causato da un “ictus tecnologico”, forse non del tutto spontaneo, a cui va riconosciuto però, facendo un generoso e carpiato tuffo nel proverbiale bicchiere mezzo pieno, il merito di aver liberato gli abitanti della terra da un fardello millenario. Una sorta d’irrevocabile Index librorum prohibitorum 2.0.
E questi frammenti sono una crasi inimmaginabile e assai complessa, ancorché illuminata, di informazioni scientifiche, storiche, letterarie, artistiche, religiose, filosofiche e mitologiche esatte, tenute insieme da un collante raro: la visionarietà dell’Autore, il suo linguaggio, il suo scrupoloso punto di equilibrio.
“Mal di fuoco” è un attizzatoio. A tratti un mantice che non dimentica di soffiare sulle braci del pensiero perché rinvigorisca e bruci senza consumarsi. Frammenti profetici, meteoriti incandescenti, che sembrano appoggiati sulla grossolana iuta della casualità, ma che invece seguono una staffetta organizzata in cui il passaggio del testimone evidenzia una connessione sempre percettibile, o quasi, tra un pezzo di pensiero e quello precedente.
Ogni frammento è figlio illegittimo di un aforisma.
Ogni aforisma è figlio imprudente dell’intuito. Rendere il proprio intuito efficace strumento di conoscenza e divulgazione, non necessita di approvazione popolare. Accade e basta. È un incidente probatorio dove il “fatto” portato come prova è il “detto”.
Tutto ciò che è plausibile è un futuro già potenzialmente accaduto. Una dannazione.
Ma il dissacrante andamento della narrazione che introduce i frammenti, e che ricorda il più ispirato Calvino, rende tutto più sopportabile, forse addirittura accettabile, anche se non desiderabile. Un futuro che resta comunque distopico ma attraversato tenuti per mano da un giovane e indisponente Virgilio, ci mette nella posizione di forza dell’irriverenza.
Una silloge di presaghi brandelli che ha il suono cadenzato di un un tamburo tribale che segna il ritmo anche della lettura, sempre e comunque scomoda, sia per l’assenza di una rassicurante immediatezza nella comprensione, sia per il faticoso pensiero che traghetta, sia per le suggestioni che propone. Che poi, questo ritmo cadenzato non sarà forse una riuscita strategia ipnotica? Sì, lo è! Un’ipnosi progressiva che porta il lettore/viaggiatore a sapere anzitempo chi sarà stato e cosa avrà visto in un futuro in cui non sarà mai individuo protagonista, ma di cui è già memoria storica – “La preistoria del futuro anteriore” direbbe l’Autore se avesse accesso a questa digressione sul suo conto.
Un libro dalla concessione di talmente tanta aria al ragionamento che sembra una grazia ricevuta. Invita all’indipendenza di pensiero. Se non altro per la necessità di collegare i fili. Per il rispetto che porta a chi lo legge, e lo viaggia, l’Autore usa la penna come fosse un uncinetto e con questo tesse una vela che non può, per sua natura, cogliere un comodo e unidirezionale vento come mezzo di locomozione, ma lascia che il trasporto per una delle strade suggerite dalla scrittura, si faccia a remi, con fatica e con coraggio. Ognuno a suo modo.
Con la responsabilità, ognuno per sé, di affrontare ogni significato, ogni vortice, ogni secca.
Ma la vela resta comunque issata.
Ciò che si ammaina è il comune senso delle cose. Qui c’è la rivoluzione.
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“Mal di fuoco” di Jonny Costantino (Effigie edizioni)