Lavorare come corrispondente di una testata straniera in Iran “è come camminare su una corda. Ma un reporter può fare molto di più di quanto ci si potrebbe aspettare”. Parla così l’olandese Thomas Erdbrink, in un video del 2015, della sua esperienza di corrispondente da Teheran prima per il Washington Post e poi per il New York Times, e al quale è stato sospesa la tessera stampa. Il suo ultimo pezzo sul NYT, del 12 febbraio scorso, racconta della frustrazione di una giovane fotogiornalista iraniana, Yalda Moayeri, che durante le dimostrazioni di fine 2017 scattò all’Università di Teheran l’immagine più nota di quelle proteste (una ragazza che alza il pugno chiuso riparandosi con il velo dal fumo): foto che poi le fu ‘scippata’ dal presidente Usa Donald Trump e dai suoi ‘falchi’, impegnati in una massiccia campagna contro la Repubblica Islamica.
Da allora Thomas non ha più scritto una riga sul suo giornale né sul suo account Twitter. Mancava la sua voce nelle tormentate cronache politiche di questi ultimi mesi sui sempre più difficili rapporti tra Washington e Teheran, sui movimenti delle forze Usa nel Golfo che solo poche settimane fa sembravano preludere ad uno scontro militare, sulle sempre nuove tensioni nell’area. Mancava soprattutto la sua capacità di cogliere dall’interno tutte quelle sfumature che solo chi conosce da vicino la realtà iraniana, lingua persiana compresa, è in grado di captare.
Alla fine quello che fra i colleghi si sapeva da tempo lo ha rivelato un paio di giorni fa lo stesso NYT: da quattro mesi gli era stata “revocata” la tessera stampa. E non aveva più il permesso di lavorare nemmeno la moglie Newsha Tavakolian, giovane fotografa dell’agenzia Magnum e internazionalmente nota. Ad erogare i permessi stampa è l’ufficio per i corrispondenti esteri del ministero della Cultura, che si divide con il ministero degli Esteri la gestione dei visti per i sempre meno numerosi giornalisti stranieri stanziali in Iran (la maggior parte dei media esteri si vale infatti della collaborazione di colleghi iraniani).
Perché il NYT rende noto ufficialmente il problema solo ora? La tempistica della notizia si spiegherebbe con il fatto che in questi mesi si sperava che il problema si risolvesse sotto traccia, senza pubblicità e clamori, ma intanto era anche emersa la necessità di rispondere alle inquietudini sulla sorte del collega che circolavano nel web. Ora comunque, confermano in ambienti vicini al collega, vi sarebbe un certo ottimismo sulla possibilità che Thomas e la moglie possano presto tornare a lavorare.
Ma è difficile non pensare che una parte in questa vicenda la stia giocando l’acuirsi delle tensioni con la Casa Bianca dopo il suo ritiro unilaterale dall’accordo sul nucleare del 2015, che l’Iran continua tuttora a rispettare, anche dopo l’ultimatum lanciato in particolare all’Europa dal presidente Hassan Rouhani (e che scadrà l’8 luglio). Ed è anche difficile non ricordare quanto accaduto al giornalista irano-americano Jason Rezaian, che aveva preso il posto di Thomas al Washington Post e che poi trascorse 544 giorni in carcere per presunto spionaggio, fino ad essere liberato nel gennaio 2016 (con l’entrata in vigore del nuclear deal) con uno scambio di prigionieri.
C’è chi ha nel frattempo ipotizzato che forse a qualcuno poteva non essere piaciuto uno dei suoi ultimi articoli. Per esempio quello che, in occasione del quarantennale della rivoluzione, osserva come, negli anni, “il primo fervore rivoluzionario ha lasciato spazio per la maggior parte degli iraniani al desiderio di una esistenza più normale”, mentre le rigide regole morali e sociali dei primi anni post-rivoluzionari sono divenute “negoziabili”. “Mentre il sistema politico è sostanzialmente lo stesso come in quei primi anni – aggiunge Thomas – la società è lentamente cambiata, a volte impercettibilmente. Questi cambiamenti sono stati enormi”, prosegue, e ora l’Iran è più vicino di quanto ritenga la maggior parte degli outsider al Paese ‘normale’ che anche gli iraniani vogliono.
Ma è difficile pensare che nei suoi 16 anni di vita e professione in Iran Thomas non abbia imparato a governare magistralmente le parole per “dire”, pur senza toccare le invisibili “linee rosse”che gradualmente si impara a riconoscere in Iran. In questa capacità di cogliere mutamenti e sfumature sta la professionalità di chi vive in Iran e ne scrive dall’interno. Perché in questa realtà in costante ma non sempre palese trasformazione sta l’essenza stessa del Paese di oggi. Quella che, a detta di molti iraniani che vivono tuttora in patria, i loro stessi connazionali “esuli” in terra straniera non sono in grado di capire. E che soprattutto i potenti fautori del “regime change”, contigui alla Casa Bianca, non riescono o non vogliono nemmeno intuire. E che anche i nostri giornalisti od opinionisti che in Iran non hanno mai messo piede faticano a realizzare, bombardati come sono da campagne mainstream che ripropongono gli stereotipi e gli stilemi di sempre, sempre funzionali all’agenda politica del manovratore ostile di turno.
In questi giorni è doveroso preoccuparsi per Thomas e Newsha, anche lei protagonista di quella serie di video del 2015 che hanno avuto una nuova edizione nel 2018. Ma è anche importante soffermarsi su quell’Iran in trasformazione di cui Thomas ha scritto con molta cognizione di causa. Il Paese dell’eterno confronto-scontro tra forze conservatrici e altre aperte al cambiamento; dei gruppi sociali più religiosi e legati alle autorità islamiche e di quelli più secolarizzati e vicini all’Occidente; dei “rivoluzionari” tra i conservatori di vecchio stampo e di quelli che si definiscono tali anche fra i riformisti; dei ceti urbani avanzati e scolarizzati e di quelli delle periferie più svantaggiate; della maggioranza dei persiani sciiti e delle minoranze etniche e religiose. Il Paese dove la linea dura di Trump ha certamente avuto l’effetto di favorire la polarizzazione politica e il rafforzamento di quei centri di potere (in Iran ve ne sono tanti, e non un “regime” monolitico come si tende a credere) che sono espressione degli ultraconservatori, a svantaggio di quelli aperti al dialogo interno e alla diplomazia. Tanto che purtroppo non sapremo mai come questa dialettica interna si sarebbe evoluta, se Trump non fosse uscito dell’accordo voluto da Obama e non avesse imposto sanzioni ancora più dure delle precedenti. E in subordine non sapremo mai se, in tale ultima ipotesi, il permesso di lavoro per Thomas sarebbe stato revocato.
Al di là della vicenda del collega del NYT – e di tanti altri giornalisti iraniani meno noti, che si muovono correndo ancora più rischi sulla stessa insidiosa linea rossa che definisce i confini della informazione possibile nel Paese – rimane infatti aperto un interrogativo: se Trump non si fosse ritirato dall’accordo sul nucleare e non fosse tornata tra i due Paesi l’ostilità dei tempi peggiori, ci sarebbe più libertà di stampa in Iran? Ci sarebbe ora più rispetto dei diritti umani?
Se molti ritengono che la Repubblica Islamica non sia emendabile e possa solo essere rovesciata, altri credono invece che quell’accordo avrebbe potuto assecondare le spinte per un ampliamento dei diritti e degli spazi di libertà espresse da una società civile forte e consapevole; che in una maggiore interazione economica e politica con l’Occidente quest’ultimo avrebbe potuto fare proprio dei successivi accordi con Teheran una leva per sollecitare il cambiamento; e che nel frattempo un ricambio generazionale anche nelle classi dirigenti avrebbe potuto favorire un cambiamento senza scosse. Proprio quello che molti iraniani, che già hanno visto le tragedie di una rivoluzione e di otto anni di guerra con l’Iraq, desiderano per sé e per il proprio Paese.