La polemica innescata da Giorgia Meloni contro l’onorificenza attribuita dalla Presidenza della Repubblica alla giornalista Asmae Dachan è la incarnazione dell’Italia peggiore e della sua classe politica peggiore. Quella che accusa e diffama usando sconsideratamente parole-grimaldello come “velo islamico”, “islam radicale”, “integralismo”, “Fratelli Musulmani” “terrorismo”, “Jihadismo”. Parole buone per tutte le stagioni ma soprattutto per questa, dove la destra di Meloni e Matteo Salvini le assimila un giorno sì e l’altro pure alla “minaccia” della “invasione” dei migranti “clandestini” e dunque potenziali terroristi. Invasione che non è mai stata tale nemmeno prima che i porti italiani fossero chiusi, ma è perfetta per alimentare paure e procacciare voti.
Meloni, leader dei Fratelli d’Italia, ha chiesto al presidente Mattarella di revocare il Cavalierato al merito della Repubblica alla giornalista Asmae Dachan (cittadina italiana nata ad Ancona da genitori siriani) in quanto sarebbe “vicina agli integralisti islamici”, e perché tale riconoscimento “sarebbe un clamoroso atto di sottomissione all’Islam radicale”. Le prove che sostanziano tali accuse? Una serie di affermazioni che si smentivano in realtà già da sole: se anche il padre fosse davvero stato un leader dei Fratelli Musulmani, come disinvoltamente afferma Meloni, cosa c’entrerebbe la figlia? Inoltre, per quanto sia da rigettare senza indugio il progetto politico della stessa Fratellanza, forse che questa è bandita in Italia come nel liberticida Egitto del presidente Al Sisi? E ancora, forse che essersi accompagnati a persone poi rivelatesi colpevoli di gravi reati è di per sé esserne i complici? Forse che, se la leader di Fratelli d’Italia fosse andata un giorno a cena con un collega parlamentare coinvolto in un procedimento per corruzione, sarebbe questo motivo sufficiente per accusarla dello stesso reato? E infine, forse che portare il velo per libera scelta è la negazione della stessa libertà di scelta che le donne si sono faticosamente conquistate?
Basterebbe questo – cioè riflettere sulle parole e il senso di responsabilità che un politico dovrebbe avere nell’usarle – per chiuderla qui, questa polemica. Perché altri hanno già detto il resto, per restituire l’onore alla giornalista diffamata. E perché la stessa Asmae Dachan ha scritto sulla sua pagina Facebook (1400 condivisioni in nove ore) che “Non vi è nulla di più distante da me, dalla mia educazione e dai miei convincimenti del terrorismo, della violenza, dell’integralismo. I miei articoli, i miei libri, la mia vita ne sono una testimonianza. Considero le dittature, tutte, comprese quelle religiose e salafite, un male da combattere”. Aggiungendo di sentirsi italiana “nelle mie fibre più intime”; e dolorosamente stupendosi per come “certe affermazioni possano essere formulate senza un briciolo di verifica, di attenzione, di rispetto verso la storia e la vita delle persone”.
Ma invece la polemica è andata oltre, e dove forse non doveva andare. Con la stessa Meloni ad elogiare su Twitter un giornalista proveniente dalla destra che della guerra siriana ha raccontato i cristiani perseguitati dai jihadisti e difesi dai lealisti del pur feroce presidente Assad, e altri a rimettere in scena la guerra siriana come un conflitto in cui anche un cronista si deve per forza schierare, e non si possa invece limitare a raccontare e spiegare – cosa che sarebbe suo primario dovere, tanto più in una situazione di guerra dove la prima vittima, come è noto, è la verità. Raccontare ciò che vede o le informazioni cui può accedere, dichiarando le fonti e indagandone la natura. O dicendo onestamente di non poter verificare quanto da queste viene riportato.
Sono questi i pilastri della professione, che in questi anni di terribile guerra siriana – guerra civile e guerra per procura, con troppi attori in scena per non vedere la “verità” dei fatti soccombere sotto nuvoli di polvere sempre più nera – hanno spesso pericolosamente vacillato. Rischiando di portare anche fra i giornalisti la faziosità delle forze in campo. Come quella di una modesta classe politica la cui sola ambizione non è analizzare e capire, ma attaccare e strumentalizzare.