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GUSTAVO ROL (ventiduesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Per esaminare più da vicino come si articolasse l’inesausta curiosità di Fellini verso l’ignoto, l’altrove, l’extrasensoriale, bisogna soffermarsi anche sulla sua amicizia con Gustavo Rol.

Il mago di Torino, che aveva quasi vent’anni più di lui – nato nel 1903 e scomparso un anno dopo Federico, nel settembre del 1994 – era laureato in giurisprudenza, ma spaziava in altri campi: era antiquario, pittore, prodigioso sensitivo, e presunta reincarnazione di Napoleone. A Federico era stato presentato da Dino Buzzati, cultore del paranormale, il quale giudicava Rol il più dotato chiaroveggente della nostra epoca e ricorreva a lui nei momenti di opacità o di paralizzante incertezza. Anche Fellini prese la stessa abitudine per affrontare con il suo aiuto momenti frizionati, irti di ostacoli, o anche per sciogliere enigmi molesti che creavano un blocco psicologico.

Nel 1975 stentando a trovare un convincente punto di vista per realizzare un film sui Mémoires di Giacomo Casanova, si era rivolto a Gustavo Rol e il mago, compiacente, gli aveva proposto un incontro medianico con il grande amatore veneziano attraverso il fenomeno della “psicografia”.

Rol che dipingeva i suoi quadri in uno stato di semi trance lasciandosi guidare la mano da una energia esterna e incorporea, si affidava anche per i responsi alla scrittura automatica detta anche, in parapsicologia, scrittura medianica o telescrittura. In essa l’atto scrittorio non prende impulso dal cervello cosciente, ma viene comandato direttamente dall’inconscio. Una volta stabilito il contatto con lo spirito da consultare, il mago tenendo una penna tra le dita trascriveva sotto dettatura, parola per parola e con stupefacente rapidità, tutto ciò che gli veniva trasmesso. Alla fine il testo appariva leggibile con assoluta chiarezza ma, una volta consultato, il documento al termine della seduta veniva bruciato e ridotto in cenere come richiesto dal rituale.

Anche questa volta il prodigio si era puntualmente avverato; e insieme a Liliana Betti demmo conto del suo contenuto nel libro scritto per l’editore Bompiani Casanova rendez-vous con Federico Fellini:

«Casanova esordisce chiamando Fellini “Signor Goldoni” (che ne sa lui del cinema? L’unico vago discernimento sulla professione di questo suo inflessibile revisore moderno è il teatro); poi puntualizza, schizzinoso: “E datemi del voi, per favore!” In meno di dieci secondi di buio totale, il mago Rol riempie una quarantina di fogli fitti della scrittura minuta e secca dell’autore dei Mémoires. A conclusione del rendez-vous, Fellini vede materializzarsi in una tasca della giacca un inequivocabile biglietto da visita del seduttore che reca un paio di consigli di igiene sessuale indirizzati a lui personalmente: “Mai in piedi. Mai dopo mangiato”. Federico ritorna a Roma più depresso e rinunciatario di prima».

Il Cavaliere di Seingalt, che amava ostentare i suoi titoli nobiliari, aveva iniziato bacchettando il consultante per non aver adottato i toni convenienti con i quali ci si rivolge a un nobiluomo. Non capiva con precisione quale fosse il mestiere di colui che veniva a turbare la pace del regno inviolabile, ma intuendo che si trattava di un uomo di palcoscenico, forse un capocomico, lo esortava a procedere nel proposito di mettere in scena le sue avventure. Anzi, si confessava lusingato dall’impresa artistica, e per dimostrargli simpatia, da grande esperto dell’arte amatoria gli impartiva suggerimenti espliciti di carattere copulatorio, in considerazione della sua età non proprio verdissima. A Fellini, che alla soglia dei sessanta mal si adattava all’ingrata stagione in arrivo, quell’atteggiamento di complicità vitellonesca non era giunto affatto gradito; e se in precedenza nutriva una generica antipatia per l’ingombrante avventuriero settecentesco, in seguito all’incontro extrasensoriale sviluppò nei suoi confronti un’autentica insofferenza, lo prese proprio a dispetto. La sua avversione per l’antesignano di ogni latin lover si consolidò, si inasprì, divenne cronica. E volentieri il regista si sarebbe sfilato dal progetto cinematografico se non fosse stato trattenuto dalla firma di un contratto blindato imposto dai produttori lungimiranti. Da quel momento però Casanova diventò nel suo lessico quotidiano “lo Stronzone”, e tale appellativo sprezzante, scritto in grossi caratteri a mano, continuò a campeggiare in bell’evidenza alle sue spalle, dietro la scrivania, per tutto il lungo periodo della preparazione. Cosicché ogni attore che si sedeva a colloquio con il regista potesse intuire a colpo d’occhio quale fosse il poco lusinghiero sentimento di Fellini nei confronti del protagonista del film.

 

Sulle magie di Rol, Federico indugiava ammirato, con profusione di dettagli. Raccontava incredibili fenomeni di telecinesi, grazie ai quali con la sola forza della mente il paragnosta era in grado di spostare gli oggetti da una stanza all’altra, smaterializzarli e ricomporli in uno schiocco di dita anche a grande distanza, in altre abitazioni, in città lontane. A un ex aiuto che aveva ottenuto di poter assistere a un incontro con il mago, era accaduto qualcosa di sbalorditivo: tornando a Roma, esattamente come era stato preavvertito, aveva trovato un pesante posacenere di vetro di Murano non più sulla sua scrivania, dove giaceva abitualmente, ma dentro la vetrinetta del soggiorno. E i familiari giuravano di non averlo spostato.  Fellini stesso conservava religiosamente un paio di scarpe a cui Rol, per gioco, aveva scambiato i tacchi, togliendolo a una e raddoppiandolo all’altra.

A Giulietta Masina che a tavola, con un gesto sbadato, aveva sporcato di unto la preziosissima borsetta e si disperava per l’incidente, Rol aveva fatto sparire la macchia semplicemente sfiorandola con le dita.

Di uno di questi fenomeni inspiegabili, fui io stesso in seguito protagonista inconsapevole, rimanendone davvero impressionato.

Negli anni Ottanta al posto del Borsalino nero a larghe tese che il regista aveva reso di moda in tutto il mondo, Fellini preferiva indossare una cloche comoda da maneggiare, di calda e morbida lana inglese, invariabilmente grigia e dal classico disegno pied-de-poule. Un giorno scendendo da treno alla stazione di Torino in un rigido pomeriggio invernale, si accorse di aver dimenticato il cappello nello scompartimento. Rol, che era andato a prenderlo al binario, sapendo quanto Federico mal tollerasse restare a testa scoperta, si premurò di accompagnarlo presso uno stimato cappellaio della città; il quale però dovette ammettere di non essere fornito di quel modello, anzi di non averlo mai trattato. Rol insistette, e incurante del rigido atteggiamento del venditore che continuava a opporre resistenze, lo invitò a salire su una scala per raggiungere lo scomparto più alto della scaffalatura: “Lassù – indicava con la mano – vede quella scatola verdina, lì dentro c’è il cappello che cerca il Maestro.” Per compiacere l’illustre ospite il negoziante sia pure controvoglia agì come gli veniva richiesto, portò la scatola sul banco e sollevato il coperchio vi trovò effettivamente il cappello desiderato.  Fellini era convinto che fosse stato il mago Rol – che infatti sogghignava in silenzio – a materializzare quella cloche, e le rimase talmente affezionato da non separarsene quasi più. La portò con sé perfino in un viaggio in Messico sulle orme dello scrittore Carlos Castaneda, alla cui opera almanaccava di ispirarsi per un film. Misterioso e inafferrabile, il leggendario creatore di Don Juan non si faceva mai raggiungere, trasformando la trasferta del regista in un percorso a ostacoli o forse in un inquietante itinerario iniziatico. Finché il gioco ebbe fine in uno sperduto albergo di Tulum, nello Yucatan. Federico si era assentato al telefono lasciando sul banco della reception il suo cappello. Quando tornò e lo afferrò con la mano, sentì una puntura di spillo sul palmo: nella fascia interna del copricapo qualcuno aveva appuntato un allarmante biglietto di avvertimento: non ostinarsi a sfidare gli eventi e riprendere al più presto l’aereo per Roma. Fellini non perse tempo e, sensibile com’era ai segni, interruppe il viaggio. Tornato in Italia, quella stessa estate, pubblicò a puntate sul Corriere della Sera l’intera vicenda, che in seguito divenne anche una storia a fumetti disegnata da Milo Manara per la rivista Il Grifo diretta da Vincenzo Mollica.

Nel frattempo il regista aveva lasciato perdere il progetto su Castaneda per dedicarsi a un’idea che da tempo accarezzava per Giulietta, Ginger e Fred. Nel film che poi realizzò, la famosa cloche viene indossata da Mastroianni, alias Pippo Botticella, ballerino di tiptap in pensione. Fellini stesso gliela piazzò in testa come un sigillo personale, per rendere l’attore ancora più simile a sé stesso. Ma l’arcano mi sfiorò qualche tempo dopo. In seguito alla scomparsa del regista, la cloche insieme alla sciarpa bordeaux, venne affidata alla sorella Maddalena. All’inizio del 1997 Maddalena mi chiamò a Rimini per dirigere la Fondazione Fellini. Restammo a parlare nel salotto di casa finché a un certo punto mi assentai per andare in bagno e percorrendo il lungo corridoio qualcosa di morbido mi planò addosso, come una carezza: Federico mi stava dando il benvenuto e ancora una volta mi sfiorava i capelli con il suo gesto familiare e affettuoso. Tornai in soggiorno con in mano la cloche. “E quello?” Sobbalzò Maddalena rivolgendosi al marito; “Ma non era nell’armadio?” Non conosceva la storia del cappello magico e così l’apprese da me, stringendolo al petto.


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