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Enrico Nascimbeni, due uomini in uno

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«Ho scritto questo libro per non andare via. Ho scritto perché sono già andato. Ho scritto questo libro perché…ho scelto di sbagliare». A leggerle ora le parole che Enrico  , collega, scrittore, cantautore, poeta, morto martedì sera a Milano, dopo un paio di mesi di dentro e fuori in due ospedali milanesi, sembrano quasi un testamento.
Enrico aveva 59 anni, era figlio di Giulio Nascimbeni, firma storica del Corriere della Sera, uomo di grande cultura, una figura ingombrante, come si dice. Ed Enrico con quel padre ha sempre dovuto fare i conti. Si amavano, ma erano agli antipodi come stile di vita, come modo di pensare. L’ultimo libro di Enrico, il libro-testamento non a caso si intitola «Ho scelto di sbagliare», ed è lui stesso a chiedersi se non sia stato un «figlio sbagliato».
Negli ultimi anni Enrico aveva fondato una testata on line, difficile per un carattere inquieto come il suo restare seduto ad un desk di qualsiasi redazione. Ci aveva provato in passato, aveva seguito Mani pulite, cronista di giudiziaria anche per testate televisive, ma quelle eperienze erano naufragate. Come definire Enrico? Due uomini in uno. Il poeta, quello che ti incantava di parole, lui che era cresciuto a pane e Montale, avendo il premio Nobel frequentato la casa milanese dei Nascimbeni. Ma Enrico sapeva anche essere respingente, scontroso e insopportabile. E lo dice una che lo conosceva bene. E di bene gliene ha voluto. Sarebbe ipocrita oggi, nel giorno del suo funerale, nella sua natia Sanguinetto, nascondere le tante ombre di quest’uomo. Ma di certo è innegabile il suo talento nello scrivere. E a sentirle oggi, le sue parole, con la sua voce, mettono ancora i brividi sulla pelle. Come spesso accade, da postumo, potrebbe perfino ambire ad avere una targa nel suo paese, una via, chissà. In fondo è stato anche un militante politico, un antifascista convinto, amico dei «figli del vento».
L’ultima volta che ci siamo visti mi aveva simpaticamente costretto a fargli da spalla durante la presentazione del libro proprio a Sanguinetto. Seduti sul palco, era stata quasi una seduta dallo psicologo, Enrico si è raccontato davanti a qualche decina di persone. Per l’occasione era pure andato dal barbiere, sbarbato e aveva tinto i capelli, di un improbabile castano. Era invecchiato tantissimo, per i suoi anni. Su quel palco era stato dolcissimo, ritrovando ogni tanto quella scontrosità che lo aveva caratterizzato per tutta la vita quando era in mezzo alla gente. Quando voleva far finta di essere forte.
«Ho scritto perché devo lasciare le mie tracce come un cane che segna territori improbabili. Passa un altro cane ed già finita. Ho scritto questo libro perché tutti i giorni parlo con mia mamma e mio papà. Una preghiera. Un mantra. Un’assenza di prato tagliato dopo la pioggia». Che la terra ti sia lieve, Enrico.

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