COSENZA È arrivato puntuale, anzi in anticipo, e ha aspettato per oltre un’ora prima di sedersi sul banco degli imputati in un’aula di giustizia che conosce da tempo e da cui mancava da dieci anni. In molti, però, hanno stentato quasi a riconoscere Franco Pino lo storico boss cosentino, diventato uno dei primi pentiti della ‘ndrangheta. Oggi ha 66 anni ed è un po’ claudicante, ma mantiene quell’aspetto austero e quel fare sempre cortese che lo ha un po’ contraddistinto tra i padrini. Ha deciso di essere presente fisicamente e non in videoconferenza nel processo che lo vede imputato per il brutale assassinio di due picciotti della mala cosentina, Marcello Gigliotti («il pazzo, uno imprevedibile») e il suo amico Francesco Lenti, due ragazzi uccisi nel 1986.
Circondato dagli uomini della scorta, è entrato in aula dalla parte della Corte e si è seduto tenendo tra le mani il suo borsello. Non voleva il paravento («per me non c’è problema»), ma il presidente della Corte di Assise di Cosenza lo ha voluto per «motivi di precauzione». Così lo storico collaboratore di giustizia ha cominciato a parlare, mentre alcuni monitor posizionati nell’aula riprendevano comunque il suo volto: quello di un uomo ormai avanti con l’età e acciaccato dai malanni, ma sempre lucido e preciso nei suoi racconti. Per oltre cinque ore ha descritto il contesto criminale cosentino degli anni 80, quello in cui si sono consumati tantissimi omicidi, ci sono state guerre di mafia e tregue. Accordi, vendette e sgarri che sono affiorati nelle parole di Franco Pino che si è pentito perché «quando ho capito che gli altri volevano fare gli infami di nascosto, io ho deciso di fare l’infame pubblico». Ha descritto equilibri, contrasti.
Ha fatto i nomi di chi ha voluto quel duplice omicidio, ma anche di chi ha materialmente sparato «con un fucile a canne mozze» e che poi ha tagliato la testa a un giovane reo soltanto di frequentare l’amicizia sbagliata. Quello che si sta discutendo davanti alla Corte di Assise di Cosenza è un cold case che è stato rispolverato e risolto dall’allora pm della Dda, Pierpaolo Bruni, che ha riletto proprio quel fascicolo e ha voluto riascoltare Franco Pino perché sicuramente avrebbe svelato dettagli e particolari inediti. Così, il collaboratore di giustizia ha risposto alle domande puntuali e precise del pm antimafia Camillo Falvo che sta seguendo il processo e che è riuscito a far parlare il pentito per tantissime ore.
Un racconto lucido e senza apparenti contraddizioni anche se per le difese le sue parole non sono attendibili. Però, ancora una volta, Pino ha ricostruito anni di ’ndrangheta cosentina, quella che «non si occupava di droga» ma che aveva delle regole, che «ammazzava e sparava per uno sgarro», che era attenta alle spartizioni delle rapine. Ma soprattutto quella che riconosceva i capi, ecco perché – a suo dire – uno di quei picciotti «è stato ammazzato»: «Perché era una testa calda e quindi andava eliminato». E lui, il boss dagli occhi azzurri, non aveva la forza di opporsi all’altro capo. Per cui diede quell’ordine dal carcere: «Fatelo» decretando la tragica morte di due giovani che, però, serviva per «ripristinare l’ordine e far capire chi comanda».