La mail arriva a tarda sera di un luglio afoso che ispira tutto tranne che lavorare. Ma in un giornale, quei giorni d’estate, bisogna fare in fretta e pensare, a volte, è un lusso che non possiamo permetterci.
La redazione è dimezzata, il caporedattore centrale tempesta di telefonate perché bisogna fare in fretta, la tipografia sta per chiudere, fai quel titolo che non possiamo aspettare i tuoi comodi. La mail, tre righe in croce, finisce nel cestino in due nanosecondi perché mica si può perdere tempo con le segnalazioni inutili dei corrispondenti di paese.
E invece, qualche minuto più tardi, si accende un flash, una lampadina nel buio di un cervello svuotato dal caldo che insegue il miraggio di una birra gelata non appena si chiude l’ultima maledetta pagina. “Fissata la sentenza nei confronti dell’editore Pietro Citrigno, accusato di violenza privata, vicenda legata al suicidio del giornalista calabrese Alessandro Bozzo”.
Torno indietro, cerco il messaggio, lo leggo due o tre volte. Del caporedattore centrale che continua a chiamare, “fotte niente”.
Violenza privata a un editore? Ma un tempo non si facevano cause per mobbing e comportamento antisindacale? Che c’entra la violenza privata? E poi quella parola terribile: suicidio. Cioè, a pochi chilometri da casa mia si è ucciso un collega e io non ne so nulla?
Mi guardo intorno, chiedo ai pochi superstiti in redazione se per caso hanno mai sentito parlare di tal Alessandro Bozzo, se sanno che è un cronista calabrese che solo qualche anno prima si è tolto la vita. Chissà poi perché. E del suo editore accusato di violenza privata, qualcuno ha mai saputo niente?
Colgo espressioni inebetite, qualcuno più intraprendente mi invita – cortesemente – a farla finita con queste cazzate perché abbiamo ancora due pagine da chiudere e le lancette dell’orologio non la smettono di girare vorticosamente. Ok, chiudiamo ‘sto giornale, ma quanto è vero Dio stasera di questo Bozzo devo capirne di più.
Su Google trovo poco e niente. Un paio di ricordi su blog personali di colleghi, un articolo del Fatto Quotidiano online. Capisco che il giornale di Alessandro era in crisi, che qualcuno (cioè il suo editore) lo aveva costretto a dimettersi per essere riassunto a metà stipendio, mi rivedo giovane cronista in quel piccolo giornale senza niente nel quale, dopo due anni di lavoro da pazzi, avevo messo insieme appena undici stipendi. Gli altri tredici si erano persi per strada, devoluti in beneficenza all’editore stesso.
Devo andare a fondo a questa storia, capire come un ragazzo di 40 anni, bello come il sole, con una moglie invidiata da tutti, una bimba di 4 anni che adorava, abbia trovato la forza di spararsi un colpo in testa per farla finita. Quanto doveva essere disperato Alessandro, quali infamità aveva dovuto subire per arrivare a tanto?
È cominciata così la ricerca di amici, colleghi, parenti. Chiunque potesse darmi una dritta, raccontarmi chi era Alessandro, perché la sua vita si era trasformata in un incubo. Non pensavo di scrivere un libro, forse un articolo poteva bastare. Qualche anno dopo, però, sono convinto che nemmeno un libro basti a raccontare l’inferno di Alessandro e di migliaia di altri Alessandro, giornalisti da quattro centesimi a riga che si spaccano la schiena un giorno dopo l’altro, malgrado le minacce delle mafie, l’indifferenza della cosiddetta società civile, lo scherno di politici mascalzoni che lucrano sulle loro sofferenze e, magari, li definiscono impunemente anche “casta”. Loro che grazie a un pugno di clic si ritrovano deputati da 15 mila euro al mese senza azzeccare un congiuntivo, agitando scie chimiche e teorie balzane sui vaccini che manco nel Medio Evo.
“Alessandro è un ragazzo calabrese che seguendo la sua passione decide di fare il giornalista. Il ragazzo ha talento, mappa la politica, taccia le ’ndrine, ausculta il cuore pieno di aritmie della sua terra. Lo fermano, lo vessano, lo sottopagano, lo isolano ma lui resiste. Sa che ciò che fa è più grande della miseria che subisce. Si aspettava tutto questo ma poi qualcosa si rompe. E tutto lo schifo che lo assediava e il dolore che montava da dentro le fibre lo inghiotte. Per sempre”.
Le parole di Roberto Saviano sono la sintesi perfetta di una vita dedicata a una passione. Alessandro non è altro che un giornalista calabrese alla soglia dei 40 anni. Un bivio della vita al quale arriva con il carico di una serie di minacce da parte della ‘ndrangheta, un lavoro sempre più precario e un matrimonio che sta per fallire. La sua storia è quella di un cronista di provincia, uno “con la schiena dritta”, mai asservito ai poteri forti, che all’improvviso si rende conto che tutto quello in cui aveva creduto e per il quale aveva sacrificato la sua esistenza sta per crollare.
“L’altro giorno ho fatto 40 anni” racconta le pressioni psicologiche, il mobbing, lo sfruttamento dei collaboratori, le minacce mafiose subite da Bozzo e un processo destinato a fare giurisprudenza. Una vicenda personale che si mescola a fatti avvenuti realmente in Calabria, una terra “avvelenata” che Alessandro ama a tal punto da non volerla abbandonare. Malgrado tutto e tutti. Ne viene fuori il carattere di un giornalista molto amato in redazione e molto odiato in una città come Cosenza che non perdona chi non si allinea. Tra politici affamati di soldi e di potere, boss della ‘ndrangheta, imprenditori corrotti, giornalisti “a disposizione” e pezzi di massoneria deviata.
Alessandro era un uomo, uno che ogni giorno si scontrava con potenti e intoccabili, uno che di loro non aveva paura e lo dimostrava con i suoi articoli, le sue inchieste dettagliate, quella sua filosofia sul mestiere che dovrebbe essere affissa in tutte le redazioni dei giornali: “Un giornalista, se trova una notizia, la scrive. Niente di personale. È il nostro lavoro, ci pagano per farlo. Fosse anche 4 centesimi a riga, ma ci pagano per quello”.
È vero, Alessandro come Primo Levi voleva “vivere sicuro nelle sua tiepida casa”. Quella che era riuscito a costruirsi con il sudore e un mutuo al quale, per colpa di un editore senza scrupoli, non sarebbe più riuscito a far fronte. Ambiva alla sicurezza, per sé, la sua famiglia, i suoi cari. Una sicurezza che nasce solo dal rispetto dei diritti umani, dall’osservanza di regole, dal rispetto.
Ci ha provato Alessandro, ma è arrivato alla fine stremato, svuotato nell’anima, senza un piano B. Quel colpo di pistola è uno schiaffo, forte, indelebile, che ha voluto dare a noi che non lo abbiamo capito. Che non l’abbiamo aiutato. Come se volesse dirci: “Io ho perso ma voi ribellatevi, non fatevi massacrare come è successo a me”.
Quel grido disperato andava raccolto. Lo abbiamo capito troppo tardi, ma il premio Francese alla memoria di Alessandro, sei anni dopo quel terribile gesto, ha finalmente ridato dignità a una vita spezzata troppo presto. Non basterà a restituirci un giornalista di talento, ma servirà a molti suoi colleghi per trovare il coraggio di dire no a certi editori che pensano impunemente di poterli trattare ancora come schiavi.