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Autonomia differenziata  o secessione? Fine del servizio sanitario nazionale

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Il regionalismo differenziato è il progetto che Salvini e la Lega vogliono realizzare nel più breve tempo possibile con questo governo o con il prossimo se si andrà ad elezioni anticipate.Dietro la cosiddetta “Autonomia differenziata” si nasconde il disegno mai sopito della Lega della secessione,  come emerge chiaramente  dal suo statuto approvato il 12 ottobre 2015, dove si assume come finalità “il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”[1]

Questo disegno rischia di essere davvero realizzato e non va sottovalutato. La bozza di intesa Stato-Regioni, infatti, prevede il trasferimento alle regioni di ben 23 materie di competenza dello Stato, che sono centrali nella architettura e nell’organizzazione dello Stato. Tra esse: istruzione, sanità, ambiente, ricerca scientifica, strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie, beni culturali, governo del territorio, lavoro, previdenza integrativa, demanio statale, rapporti internazionali e con l’UE.  Per ora si tratta di tre regioni, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna (che per ora ne chiede 15), ma altre si stanno preparando e sono in coda.

Con l’autonomia differenziata, che porta agli estremi le modifiche introdotte nel Titolo V, il divario Nord-Sud è destinato a diventare incolmabile e la situazione dei servizi sanitari, sociali e alla persona è destinata a peggiorare nettamente.  Anche perché l’operazione dovrà avvenire a spesa invariata, per cui ciò che verrà dato ad una regione, verrà tolto da un’altra. Insomma, un enorme travaso di risorse dallo Stato alle regioni già ricche e una violazione eclatante dei principi fondamentali di uguaglianza e di tutela dei diritti, come voluto dalla nostra Costituzione.

Il risultato sarebbe l’allineamento del centro-Nord ai paesi dell’Europa centrale e la deriva e lo sprofondamento del Sud.

In campo sanitario, sarebbe cancellato e frantumato il Servizio Sanitario Nazionale, attualmente improntato ai principi di universalità e solidarietà, in base al quale tutti i cittadini indipendentemente dalle loro origini, dalla loro residenza, dal censo sono curati allo stesso modo con oneri a carico dello stato, mediante prelievo fiscale su base proporzionale.

Le Regioni del Centro-Nord, senza più vincoli di spesa e di bilancio da parte dello Stato, sarebbero del tutto autonome nella organizzazione dei propri servizi sanitari,  nella assunzione del personale, nell’accesso alle scuole di specializzazione, nella selezione della dirigenza sanitaria, nel rapporto col privato, nella gestione del patrimonio edilizio e tecnologico, nella politica dei farmaci, nella tutela degli alimenti, nella prevenzione e nella tutela dell’ambiente, nella bonifica dei siti inquinati, nella tutela e sicurezza del lavoro, nella istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi. I livelli di assistenza sarebbero commisurati ai maggiori introiti, ecco perché si parla di secessione dei ricchi.

Per il Sud e le isole, già ora sotto finanziate e penalizzate dal Titolo V, si prospetterebbe il tracollo della sanità pubblica. Anch’esse, dovrebbero, gioco forza, contare quasi esclusivamente sulle proprie entrate, che sarebbero però largamente insufficienti poiché la base impositiva nel mezzogiorno è ridotta. D’altronde la capacità di trasferimento da parte dello Stato sarebbe molto limitata.  Non sarebbero più in grado di costruire e mantenere ospedali e servizi sanitari, di assicurare cure efficienti, di fare prevenzione primaria e secondaria, di assumere personale. Aumenterebbe il cosiddetto turismo sanitario verso il Centro e il Nord, ma solo per chi se lo può permettere perché è probabile che le regioni non possano più pagare le trasferte dei propri cittadini. Quanto ai medici e agli altri operatori sanitari, molti di valore, non resterebbe loro che trasferirsi nelle regioni più ricche e dotate, come già d’altronde avviene.

Così sarebbe per gli altri servizi che incidono sulla qualità della vita, come servizi sociali, asili nido, mense e bus scolastici, assistenza agli anziani, trasporto pubblico locale, etc.

Ma non è detto che con il dissolversi dello Stato e venendo meno la sua funzione perequatrice,  il sistema possa reggere per tutte le regioni resesi autonome e per i loro cittadini: non ci sarebbero più dei sindacati nazionali a tutelare i contratti che sarebbero i primi ad essere messi in discussione, l’uguaglianza e l’universalità dei diritti potrebbe essere insostenibile per le finanza pubbliche, sarebbero favorite le privatizzazioni.

In definitiva si tratterebbe di un colpo mortale che sbriciolerebbe definitivamente la coesione sociale, creerebbe un caos politico amministrativo senza precedenti e genererebbe maggiori disuguaglianze in un paese che è già tra i più diseguali d’Europa.

 

E non sarà il Parlamento a poter mettere in discussione gli accordi già raggiunti, giacché, al momento,  si prevede che le intese siano approvate in Parlamento secondo la prassi adottata per i culti acattolici, cioè con un voto – si o no – di mera ratifica, senza possibilità di fare emendamenti.

Per un anno vi è stata una trattativa privata governo-regioni, senza che nulla trapelasse. Ed i pre-accordi sono stati siglati, prima delle elezioni del marzo 2018 da un Governo in dismissione, che si sarebbe dovuto limitare all’ordinaria amministrazione, mentre qui si tratta di modifiche che vanno ad incidere sull’assetto costituzionale. Ma perché, dopo che sono state pubblicate le bozze dell’intesa, le reazioni del mondo della sanità pubblica, delle organizzazioni di categoria non sono ancora all’altezza di un così grande inganno? Perché sulla stampa se ne parla così poco?

Bisogna costruire una grande mobilitazione, va ritrovato il senso di appartenenza ad un’unica comunità richiamando i valori dell’uguaglianza e di diritti uguali per tutti come prescritto nella nostra Costituzione. Bisogna battersi perché non passi il disegno leghista, bisogna cercare di ricostruire un’unità economica e sociale tra Nord e Sud far cessare la sperequazione nel trasferimento delle risorse, che già ora premia le regioni più ricche.

Ma perché questo accada il Mezzogiorno deve cambiare rotta. Anche la sua classe dirigente finora è stata di ostacolo al suo sviluppo. Bisogna che si possano esprimere coloro che nel mezzogiorno si battono per le buone pratiche di governo, la corretta amministrazione, l’etica pubblica. Deve cessare l’asservimento della sanità ai partiti e la sua contaminazione con fenomeni criminosi. Non che le regioni del nord e del centro ne siano esenti, ma appaiono meno perché la sanità continua, nonostante tutto, a funzionare.

Va colta questa occasione, per cercare di sanare quella spaccatura tra Nord e Sud che il paese si trascina fin dalla sua unificazione.  Anche se le condizioni per farlo, sembrano disperate, e pesanti le compromissioni.

*Loretta Mussi – Comitato per la Democrazia Costituzionale di Roma

[1] A riprova, l’art. 1 dello statuto della Lega, approvato il 12 ottobre 2015, che assume come finalità “il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”. All’art. 2 si auto-definisce “confederazione composta dalle seguenti Nazioni costituite a livello regionale”: “Alto Adige – Südtirol; Emilia; 3. Friuli – Venezia Giulia; Liguria; Lombardia; Marche; Piemonte; Romagna; Toscana; Trentino; Umbria; Valle d’Aosta; Veneto”

 


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