Alla vigilia della conferenza in Bahrain, la Casa Bianca presenta il suo piano economico: un pacchetto multimiliardario per i Territori Occupati, Egitto, Libano e Giordania. Hamas e Anp rigettano in coro: “La soluzione è politica”. Fuori dal piano restano le questioni cuore: indipendenza, ritorno dei rifugiati, fine dell’occupazione
Sabato, a tre giorni dall’apertura della conferenza di Manama, in Bahrain, sulla “pace economica” tra israeliani e palestinesi,l’amministrazione statunitense ha svelato il contenuto del piano di cui si vocifera da mesi e imbastito dal presidente Trump insieme al suo entourage: 50 miliardi di dollari di investimenti a favore dei palestinesi e dei paesi arabi.
Secondo quanto reso noto, il piano prevedrebbe 179 progetti infrastrutturali, un fondo investimento da un miliardo di dollari per il turismo palestinese e un “corridoio” di mezzi di trasporto da cinque miliardi per collegare Gaza alla Cisgiordania. Ai Territori Occupati, alla fine andrebbero 25 miliardi di dollari, l’altra metà sarebbe divisa tra Libano, Egitto e Giordania. In particolare investimenti sarebbero previsti per la Penisola del Sinai, adiacente alla Striscia, chiaro riferimento all’idea più volte avanzata dalla destra israeliana di fare del Sinai una sorta di Stato palestinese.
Creerebbe, dicono dalla Casa Bianca, “milioni di posti di lavoro a Gaza e in Cirgiodania” e porterebbe “il tasso di disoccupazione dal 30% a poche unità, riducendo della metà il tasso di povertà”. E raddoppierebbe il pil palestinese.
Denaro che, dicono a Washington, non sarebbe direttamente gestito dall’Autorità nazionale palestinese, ma da una banca multinazionale di sviluppo per “assicurare buona gestione e impedire la corruzione”.
Il piano, pubblicato sulla pagina web della Casa Bianca, lancia così la due giorni bahranita in cui dovrebbe essere ufficialmente lanciato il cosiddetto Accordo del Secolo, al cospetto di uomini d’affari e ministri delle Finanze di mezzo mondo, ma non della leadership palestinese, non invitata né informata della conferenza e che aveva già fatto sapere che non sarebbe mai andata.
Ora arriva un altro no dall’Anp del presidente Abu Mazen: appena reso pubblico il piano di investimenti multimiliardario, Ramallah ha rigettato la proposta. Perché con sé porta il peso insopportabile di concessioni definitive: la rinuncia alla sovranità e a uno Stato contiguo e indipendente insieme all’espulsione dal tavolo delle trattative del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
“La situazione economica non dovrebbe essere discussa prima di quella politica – ha detto sabato Abu Mazen, che dalla brutalità dell’attuale amministrazione Trump ha potuto ricavare un vigore mai avuto nell’approcciarsi al “dialogo” con Israele – Finché non ci sarà una soluzione politica, non accetteremo alcuna soluzione economica”.
Eppure proprio è questo è il cuore della ricetta trumpiana: affari in cambio di diritti. La stella polare indicata dal suo inviato per la questione israelo-palestinese, nonché genero, Jared Kushner, noto sostenitore e finanziatore del movimento dei coloni israeliani nei Territori Occupati. E’ stato lo stesso Kushner ad affermare l’altro giorno che l’approccio è quello economico perché “meno controverso” di quello politico: “Lasciamo che la gente lo studi, ci dia un feedback. Proviamo a finalizzarlo se tutti siamo d’accordo”.
Ma i palestinesi sono consapevoli che se accettassero quello che per Kushner è un primo passo, poi di secondi passi non ce ne saranno. E direbbero addio in un colpo solo alla fine dell’occupazione militare, al ritorno dei profughi, alla sovranità sui confini, tutte questioni che il piano trumpiano non cita neppure. Come non cita le ragioni per cui i Territori Occupati non godono di un’economia stabile: un mercato prigioniero, un sistema produttivo del tutto assoggettato alle autorità israeliane che controllano confini, tasse, risorse materiali e forza lavoro, divieto all’export diretto e all’importazione libera, confisca di terre e crollo del settore agricolo.
“Primo, togliere l’assedio a Gaza, fermare il furto di terre, risorse e fondi da parte di Israele, darci la nostra libertà di movimento e di controllo su tutti i confini, sullo spazio aereo e le acque territoriali – ha risposto su Twitter Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dell’Olp – E poi guardateci costruire una vibrante e prosperosa economica come popolo libero e sovrano”.
A rispondere è anche Hamas dalla Striscia di Gaza: “Rigettiamo l’Accordo del Secolo in tutte le sue dimensioni, economica, politica, di sicurezza – ha detto Ismail Rudwan, membro del partito islamista – La questione del popolo palestinese è nazionalista, è la questione di un popolo che è in cerca di libertà dall’occupazione. La Palestina non è in vendita e non è una questione da contrattare”.
C’è però chi guarda con favore al piano di Trump che, se non è politico nei confronti della questione palestinese, lo è a livello di rapporti regionali: i paesi arabi alleati di Washington, da anni impegnati in un avvicinamento dietro le quinte a Israele che sarebbe coronato dall’Accordo, a loro realmente diretto. Non è più un mistero che il progetto di Trump ha come reale obiettivo la normalizzazione alla luce del sole – perché ufficiosamente è già realtà – tra Tel Aviv e i regimi sunniti, guarda caso tutti o quasi membri del fronte anti-Iran messo su in due anni di amministrazione del tycoon newyorchese.
Loro, i paesi del Golfo a cominciare dall’Arabia Saudita, a Manama ci saranno. Non ci sarà una delegazione governativa israeliana in pompa magna – non più invitata vista l’assenza dell’Anp – ma un più piccolo gruppo di uomini d’affari. Quelli a cui la pace economica piace più di altri. Nena News