CATANIA – L’infanzia è una luce che tremola nel buio e dal quale, poco a poco, si materializzano fantasmi e incubi. Sono quelli che Franz Kafka distilla nella sua “Lettera al padre” che Gianni Scuto del Teatro Gamma, ha messo in scena alla Sala Di Martino di Catania, concludendo il dittico dedicato al grande scrittore praghese avviato da “Il processo” della Compagnia Fabbricateatro.
I lacerti di testi kafkiani che racchiudono letteralmente la messa in scena, appesi sulla gabbia-famiglia che attraversa tutto lo spazio scenico, rivestono un indubbio valore simbolico e segnalano probabilmente la mappa di una possibile via di fuga: è la sola scrittura in grado di contenere la complessità della vita e allo stesso tempo a costituire argine alla sue tragedie. E’ un viaggio, una terribile discesa dentro se stessi, dentro le dinamiche familiari dei Kafka, dentro un rapporto di assoluta sottomissione sotto cui cova l’istinto, represso, dell’ammutinamento: tra autostima e lamentazione – “sono venuto male” confessa Franz (un Alessandro Chiaramonte sicuro ed ispirato) – si scandiscono i momenti salienti della sua infanzia e della sua adolescenza, i traumi di una educazione rigidamente “prussiana”, votata ai valori marziali e virili di tutta un’epoca, l’incapacità ad essere un vero Kafka come il padre “in quanto a forza, salute, appetito, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito.” Eppure nel rincorrersi di voci e di sentenze – dell’amico Sorel (Alessandro Gambino), della madre (Barbara Cracchiolo) e della sorella Ellie (Elisa Marchese) – si rintraccia un incedere di marionetta, di pupo: tutti mossi dalla mano e dall’autoritarismo del Padre, “gigantesco sotto ogni aspetto” (e Domenico Maugeri lo rende con vigorosa efficacia interpretativa), il quale incombe sulla scena come idea-totem, aguzzino onnipotente (anche l’amore materno pare irretito dalla sua volontà di potenza) che commina premi e punizioni, padrone di ogni cosa e di ogni pensiero.
In un dualismo che non prevede nessuna dialettica, la mancanza di allegria di Franz – che spesso si volge in tristezza – contrasta con il distacco assoluto (soprattutto affettivo) dell’altro così come la possanza fisica dell’uno si oppone alla gracilità di Franz: uno “scheletrino insicuro” a dire del genitore, la cui personalità, quasi plavoviana, applica le regole rigorose che la sua logica e la sua formazione gli impongono e gli suggeriscono: in quel contesto è assolutamente necessario assomigliare ai padri per sopravvivere. In quest’ottica oppositiva tutto l’atto unico (a volte un po’ didascalico) ci è parso una sorta di riuscito contrappunto: il soliloquio di Franz, la sua sensibilità da un lato, la polifonia della famiglia dall’altro. Tutte le tappe della breve esistenza di Kafka scandagliate dal giudizio del padre, fino all’università e al matrimonio, le uniche possibili fughe da una infanzia infelice. Se con la prima Franz raggiunge l’indifferenza, col matrimonio – anzi: il sogno del matrimonio – invece potrebbe realizzare l’indipendenza dalla figura paterna, quell’autonomia sempre agognata che però lo trasformerebbe, a sua volta, in un padre: ecco allora le crisi, il rigetto, la depressione. Il matrimonio si trasforma in un atto impossibile. L’unica salvezza rimane solo l’atto della scrittura: ecco allora crepitare sulla scena alcuni stralci dei romanzi affidati alla voce di tutti gli interpreti. In questo modo Franz Kafka, sfuggendo dalla realtà ce la riconsegna nella tragica sublimazione della testimonianza in cui la verità si trasforma in infelicità. Per tutti.